Chi ha iniziato la guerra tra Palestina e Israele? E’ quello che si chiedono in molti, ora che il conflitto tra i due stati è riesploso nuovamente con una violenza inaudita.

Chi ha iniziato la guerra tra Palestina e Israele?

Quando ci si addentra nella discussione sul conflitto israelo-palestinese, è spesso fondamentale fare riferimento alla celebre Dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917 come punto di partenza. In quel giorno, il governo britannico, attraverso il ministro degli Esteri Arthur Balfour, comunicò a Lord Walter Rothschild, un importante esponente della comunità ebraica in Palestina, il proprio favore per l’istituzione di un “focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina, impegnandosi a facilitarne il conseguimento.

Tale dichiarazione, che aveva anche connotazioni strategiche, venne formulata in un periodo in cui si discuteva della possibilità che gli ebrei potessero tornare a insediarsi in Terra Santa. Allo stesso tempo, si sottolineava la necessità di non compromettere “i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche in Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni”. Nei decenni successivi, alcuni ebrei si trasferirono in quella regione, ma il progetto rimase in sospeso fino a quando, dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò un piano di partizione della Palestina. Tale piano portò alla creazione dello Stato di Israele, proclamato il 14 maggio 1948.

La nascita dello Stato d’Israele e le prime guerre

La creazione di Israele ha immediatamente suscitato controversie e molti Paesi arabi hanno deciso di intraprendere azioni militari per contrastare l’insorgere del nuovo Stato. Nonostante Israele fosse appena nato, aveva già preparato il terreno per un possibile conflitto e l’anno successivo è riuscito a vincere, conquistando una porzione di territorio più ampia di quanto inizialmente stabilito dal piano delle Nazioni Unite. La sconfitta subita in quel periodo è commemorata annualmente dai Palestinesi nel giorno noto come ‘Nakba’, o “catastrofe”, che si celebra il 15 maggio.

Nel 1956, Israele superò i confini egiziani con il supporto di Francia e Regno Unito, scatenando la cosiddetta crisi di Suez. Nel 1967, la Guerra dei Sei Giorni ebbe inizio, un conflitto nato da motivi simili a quelli che avevano contribuito alle tensioni nel 1949. Questo conflitto portò Israele a conquistare ulteriori territori, inclusa la Cisgiordania. In contrasto con gli episodi precedenti, la comunità internazionale non riconobbe l’annessione di questi nuovi territori. Tuttavia, Israele ha continuato a mantenere il controllo su di essi, dando origine al termine “territori occupati“.

Le ostilità, mai completamente sopite, hanno sfociato in un nuovo conflitto nel 1973, conosciuto come la guerra del Yom Kippur, che ha nuovamente visto Israele prevalere. A partire dalla seconda metà degli anni ’70, le relazioni tra Israele ed Egitto hanno iniziato a normalizzarsi grazie agli Accordi di Camp David. L’Egitto è diventato il primo Paese arabo a riconoscere ufficialmente Israele, tuttavia, questo trattato di pace non è stato ben accolto da tutti. Il presidente Sadat, che aveva avviato la guerra del 1973 con l’obiettivo di recuperare la penisola del Sinai e “riaffermare i diritti del popolo palestinese”, è stato etichettato come traditore e assassinato da integralisti islamici. In seguito, l’Egitto è stato espulso dalla Lega araba.

L’intifada delle pietre

Né il caso dell’Egitto né gli insuccessi militari dei Paesi circostanti riuscirono a soffocare le persistenti rivendicazioni palestinesi. Negli anni successivi, nuovi attori, come ad esempio Hamas, hanno preso parte al movimento e queste richieste hanno assunto anche una dimensione armata. La tensione ha raggiunto un punto critico il 9 dicembre 1987, quando crescente insoddisfazione ha scatenato la cosiddetta “intifada delle pietre”.

In questo contesto, i manifestanti hanno iniziato a lanciare pietre e molotov contro le forze di sicurezza israeliane. L’evento scatenante ufficiale fu un incidente in cui un camion dell’esercito israeliano entrò in collisione con due furgoni che trasportavano lavoratori palestinesi da Gaza a Jabaliyya, un campo profughi con oltre 60.000 abitanti, causando la morte di quattro palestinesi. Tuttavia, dietro a questa rivolta si celava un crescente malcontento, alimentato anche dall’occupazione israeliana dei territori acquisiti durante la guerra del 1967.

I tentativi di pace

La questione tra Israele e la Palestina è rimasta irrisolta, anche se ci sono stati momenti in cui sembrava possibile raggiungere un accordo, se non per la pace, almeno per la coesistenza pacifica. Ad esempio, il 13 settembre 1993, il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e il leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), Yasser Arafat, hanno firmato gli storici Accordi di Oslo nel cortile della Casa Bianca. Questa data è stata significativa perché è stato il primo riconoscimento da parte di Israele del diritto dell’OLP di governare su alcune delle terre precedentemente occupate. In cambio, l’OLP ha riconosciuto il diritto di Israele di esistere e ha promesso di rinunciare alla violenza per ottenere uno stato palestinese.

Nel 1995, i due leader hanno siglato un altro insieme di accordi noti come Oslo II, ma il processo di pace ha subito una battuta d’arresto. Nello stesso anno, Rabin è stato assassinato da un estremista religioso, e l’OLP è stata accusata di complicità nelle azioni armate. L’anno successivo, in Israele, è divenuto primo ministro un politico, Benjamin Netanyahu, che aveva più volte criticato tali compromessi, definendoli un errore.

Nel 2000, le tensioni si sono nuovamente acuite. A luglio, i negoziati a Camp David sono falliti, e circa tre mesi dopo, il leader israeliano Ariel Sharon ha visitato la Spianata delle Moschee, un luogo storicamente rivendicato dagli Arabi e considerato sacro. La sua presenza è stata interpretata come una provocazione, e il 28 settembre è scoppiata una nuova ondata di proteste, che ha segnato l’inizio della seconda intifada, caratterizzata da azioni di guerriglia e attacchi terroristici.

I nuovi conflitti

Nel 2014 si è verificato un conflitto a tutti gli effetti e nel 2015 si è parlato nuovamente di una possibile nuova intifada a causa di una serie di scontri, intensificatisi a seguito del fallimento dei nuovi colloqui di pace e che hanno causato ulteriori vittime.

Il rischio di una nuova escalation è tornato a farsi sentire nel 2017, quando l’allora presidente americano Donald Trump ha annunciato l’intenzione di spostare l’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, riconoscendola di fatto come capitale di Israele. Nel giugno 2020, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato un piano per l’annessione delle colonie israeliane in Cisgiordania, contrariamente al percorso delineato dagli Accordi di Oslo e che ha ostacolato la prospettiva della “soluzione dei due stati”. Come in passato, questi eventi sono stati seguiti da periodi di tensione e momenti di relativa calma.

Nel 2021, si è nuovamente assistito a un’escalation. Questa volta, lo scoppio del conflitto è stato scatenato dal rischio di sfratti di alcune famiglie palestinesi nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est. La guerra che ne è scaturita è durata 11 giorni e ha provocato la morte di più di 200 persone.

Gli ultimi anni

Nel 2020, nonostante la mancata risoluzione della questione palestinese, si è cercato di normalizzare le relazioni tra Israele e alcuni Paesi arabi. In particolare, a settembre di quell’anno, Israele, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain hanno firmato gli Accordi di Abramo sotto il patrocinio degli Stati Uniti. Secondo l’allora presidente Donald Trump, questi accordi rappresentavano “l’alba di un nuovo Medio Oriente” perché segnava la prima volta in cui due Paesi del Golfo riconoscevano ufficialmente Israele.

Tuttavia, all’inizio del 2022, la tensione tra Israele e la Palestina è salita alle stelle. A partire da metà marzo, ci sono stati una serie di attacchi terroristici ravvicinati contro Israele, e le forze israeliane hanno ucciso tre palestinesi in Cisgiordania, sostenendo che fossero armati. Il primo ministro israeliano dell’epoca, Naftali Bennett, ha incoraggiato gli israeliani a portare con sé armi per la difesa personale. Inoltre, si sono verificati violenti scontri con la polizia israeliana sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, con centinaia di feriti. Queste tensioni hanno portato a un nuovo scambio di accuse tra le due parti e al bombardamento di un sito nella Striscia di Gaza in risposta al lancio di un missile da parte di Hamas.

Il 7 ottobre 2023, dalla Striscia di Gaza è partito un massiccio lancio di migliaia di razzi verso Israele, che hanno raggiunto anche Tel Aviv e Gerusalemme. Questo attacco è stato condotto da Hamas nell’ambito dell’Operazione al-Aqsa, con l’obiettivo di “porre fine ai crimini” di Israele. Nel frattempo, i miliziani del gruppo hanno superato le barriere fisiche che separano la Striscia da Israele, scatenando una risposta militare da parte del governo israeliano, denominata “Spade di ferro”. Decine di migliaia di riservisti sono stati richiamati nell’esercito e il primo ministro Netanyahu, rieletto nel dicembre 2022, ha annunciato ai cittadini: “Siamo in guerra e vinceremo”. La situazione è apparsa subito molto grave, con lanci di missili da entrambe le parti e il rapimento di ostaggi civili e militari israeliani da parte di Hamas.

Molti hanno notato che la debolezza del governo di Netanyahu e le lacune nei servizi segreti israeliani hanno facilitato l’entità dell’attacco, alimentando sospetti su un possibile sostegno a Hamas da parte di altri Stati, come l’Iran (che ha negato ufficialmente il coinvolgimento, pur sottolineando il suo sostegno alla Palestina). Questo conflitto è scoppiato proprio mentre erano in corso negoziati per normalizzare le relazioni tra Israele e l’Arabia Saudita, sempre con la mediazione degli Stati Uniti e nell’ambito degli Accordi di Abramo del 2020.