Bitcoin è realmente uno strumento per l’economia criminale? Nel corso degli anni accuse di questo genere sono arrivate non solo dalla finanza tradizionale, come era del resto prevedibile, ma anche da ambienti della politica, in particolare statunitensi.

Le accuse sono derivanti in particolare dal fatto che BTC, e le criptovalute in genere, si propone di conferire elevati livelli di riservatezza alle transazioni che ne vedono l’impiego. Secondo i detrattori, destinate a favorire il riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite, l’evasione fiscale e criminalità in genere. Ma cosa c’è di vero in queste accuse?

Bitcoin tra realtà e leggende metropolitane

Tra i fustigatori più accaniti di Bitcoin occorre intanto annoverare Davide Serra, il fondatore di Algebris. Secondo lui, infatti, BTC non sarebbe altro che una lavanderia di soldi sporchi. Una tesi del resto sposata da più parti la quale, però, non trova d’accordo i sostenitori dell’innovazione finanziaria.

A partire naturalmente dalla Bitcoin Foundation, secondo cui chi emette giudizi di questo genere mostrerebbe una evidente ignoranza in materia di criptovalute e blockchain. Com’è noto, o come dovrebbe esserlo, il libro mastro che è parte integrante della blockchain è pubblico, può cioè essere consultato liberamente. Facendolo è possibile quindi vedere i due estremi di una transazione, ovvero i wallet di riferimento.

Una tesi che è del resto stata sposata da Gaspare Jucan Sicignano, un ricercatore dell’Università Suor Orsola Benincasa che sul tema ha scritto “Bitcoin e riciclaggio”. Proprio lui ha ricordato non solo come funziona la blockchain, ma anche la tesi di uno studio condotto da Agipronews in collaborazione con Polimi, il quale sostiene che utilizzare BTC in transazioni illecite sarebbe addirittura più rischioso dell’uso di denaro tradizionale.

Una tesi fondata del resto su un report pubblicato nel 2015 dall’HM Treasury e dall’Home Office del Regno Unito, secondo cui il rischio che Bitcoin e Altcoin siano impiegati nel riciclaggio di denaro e per finanziare il terrorismo sarebbe basso.

Bitcoin è una pessima scelta per le attività criminali: parola di Danny Scott

A condividere le tesi di Sicignano è anche Danny Scott, CEO di CoinCorner, un exchange dedito al commercio di Bitcoin prima della sua chiusura. Secondo lui, infatti, l’utilizzo di Bitcoin da parte dei criminali appartiene ormai al passato. A motivare questo giudizio la condanna di Gary Davis a 6,5 ​​anni di reclusione per aver contribuito a gestire il mercato darknet Silk Road, uno dei più fiorenti del Dark Web, la parte più oscura di Internet su cui avvengono i commerci di stupefacenti, armi ed esseri umani.

A testimoniarlo, peraltro, sarebbe un semplice dato pubblicato da Chainalysis, secondo cui soltanto l’1% delle transazioni avvenute sulla blockchain di Bitcoin sarebbero da ricondurre all’economia criminale.

Anche Scott, peraltro, insiste nel ricordare come a rendere pessima la scelta di BTC per transazioni illegali è il funzionamento della blockchain. Una volta introdotti nella rete, infatti, i dati non possono più essere modificati e sono pubblici. Potrebbero cioè essere consultati dalle forze di polizia, le quali potrebbero tranquillamente risalire agli estremi della transazione e agire di conseguenza.

Jamie Dimon ha cambiato idea

Se Davide Serra non ha mai dato segnali di ravvedimento in ordine all’utilizzo improprio di Bitcoin, c’è invece un altro attori di rilievo della scena finanziaria che sembra essere tornato indietro sui propri convincimenti. Stiamo parlando di Jamie Dimon, amministratore delegato di JP Morgan Chase.

Anche lui, infatti, sino a qualche anno fa non esitava a indicare Bitcoin come uno strumento ideale per la criminalità, organizzata o meno. Tanto da dichiarare l’intento di voler licenziare i trader del suo istituto bancario ove sorpresi a trafficare in BTC.

Un convincimento che, però, ha resistito poco di fronte alle nuove opportunità di business prospettate dalle criptovalute. Tali da spingere la stessa banca a varare il suo token, JPM Coin, in modo da intercettare quella parte di clientela favorevole all’innovazione finanziaria.