È una storia brutale e senza senso, quella del femminicidio di Roberta Siragusa, uccisa all’età di 17 anni dal fidanzato, Pietro Morreale, a Caccamo. Il 21enne è già stato condannato all’ergastolo. Domani, 9 ottobre, si aprirà nei suoi confronti il processo davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Palermo: il suo difensore, l’avvocato Gaetano Giunta, ha infatti impugnato la sentenza di primo grado, contestando la sussistenza dell’aggravante della premeditazione e del movente della gelosia.
La storia del femminicidio di Roberta Siragusa, uccisa dal fidanzato a Caccamo
I fatti risalgono alla notte tra il 23 e il 24 gennaio 2021. Il corpo della giovane, 17 anni, fu trovato senza vita in un dirupo nei pressi del Monte San Calogero, a Caccamo, fuori Palermo. Era stato dato alle fiamme, ma intorno non c’erano tracce di alcun incendio. Una circostanza che aveva spinto gli inquirenti a cercare altrove: erano convinti che il delitto si fosse consumato in un altro luogo e che il cadavere semicarbonizzato della giovane fosse poi stato spostato.
Ne ebbero conferma quando, nel corso delle perlustrazioni, al campo sportivo poco lontano dal ritrovamento del corpo trovarono frammenti bruciati dei vestiti indossati dalla vittima. Stando a quanto ricostruito grazie alle testimonianze dei familiari, si scoprì che Roberta era uscita di casa per trascorrere una serata insieme agli amici e al fidanzato, Pietro Morreale, 21 anni. Su di lui, dopo i primi accertamenti, si concentrarono tutti i sospetti.
Era stato il giovane, infatti, ad indirizzare i carabinieri verso il luogo del ritrovamento. Secondo chi indagò al caso, al culmine di una lite avrebbe colpito la ragazza con un sasso, bruciandola viva. Lui aveva raccontato altro: aveva detto che la 17enne si era gettata dal dirupo volontariamente, dopo essersi buttata addosso della benzina. E aveva anche ribadito più volte che, per cercare di salvarla, si era ferito.
La sua auto era stata inquadrata dalle telecamere di sorveglianza installate nei pressi del campetto “incriminato” proprio nel corso dell’incendio e al suo interno furono trovate tracce “inequivocabili”, di sangue e benzina, ma anche una bottiglietta contenente liquido infiammabile, che lui aveva detto di portare con sé per alimentare la sua vespa. L’ipotesi è che abbia agito perché la giovane voleva lasciarlo: non poteva accettare di perderla.
La sentenza di primo grado e il processo d’Appello
Finito a processo con l’accusa di omicidio volontario aggravato e occultamento di cadavere, il 21enne è stato condannato all’ergastolo. Il legale che lo difende, l’avvocato Gaetano Giunta, ha però impugnato la sentenza di primo grado, facendo ricorso in Appello. Secondo lui, in pratica, sia il movente della gelosia – ricostruito dall’accusa – che l’aggravante della premeditazione (riconosciutagli insieme a quelle della relazione affettiva e della crudeltà) sarebbero insussistenti.
Il primo perché pare che il giovane non avesse mai avuto atteggiamenti violenti e possessivi. Una versione che cozza con quella che emerge dalle motivazioni della sentenza con cui è stato condannato, nella quale si citerebbero ben 33 episodi di violenza: l’ultimo qualche giorno prima dell’omicidio, quando sarebbe arrivato a stringere una corda attorno al collo della giovane. La seconda (la premeditazione) perché sarebbe stata la 17enne ad insistere per uscire, la sera in cui morì.
Il nuovo processo si aprirà domani, 9 ottobre. Per l’occasione i familiari di Roberta, costituitisi parte civile, saranno assistiti dagli avvocati Sergio Burgio, Giuseppe Canzone, Giovanni Castronovo e Simona La Verde. La loro speranza è che il verdetto del primo grado venga confermato. Con queste parole l’avevano commentato, l’ottobre dello scorso anno:
Non ci aspettavamo meno dell’ergastolo. Ora Roberta può riposare in pace, giustizia è fatta.
Ma si auguravano anche nuove indagini, per cercare i presunti complici del giovane: fin dall’inizio il sospetto è che non abbia fatto tutto da solo.