Dopo quattro anni di indagini, il pm Stefano Luciani ha chiesto il rinvio a giudizio per un medico e per il marito della donna malata terminale morta dopo un’iniezione letale a Roma. I fatti risalgono al 2019: secondo l’accusa, i due uomini “uccisero” la donna approfittando delle sue condizioni di salute. Loro si difendono dicendo che sarebbe stata lei stessa a chiedere loro di aiutarla: stava soffrendo moltissimo e non aveva alcuna speranza di potersi salvare. Voleva una morte dignitosa.
Malata terminale muore dopo un’iniezione letale a Roma: chiesto il rinvio a giudizio per il marito e per un medico dell’Idi
Da più di un anno la donna combatteva la sua personale battaglia contro un tumore maligno al colon, senza alcuna speranza di riuscire a farcela. Per questo, secondo il marito, 53 anni, allo stremo delle forze gli aveva chiesto di aiutarla a farla finita. Lui si era rivolto a un medico di guardia dell’Idi, l’Istituto Dermopatico dell’Immacolata di Roma, dove la moglie era ricoverata, riuscendo a farsi dare una mano: insieme avevano messo fine alle sue sofferenze, “uccidendola” con un’iniezione letale di cloruro di potassio diluito.
Era il 13 gennaio 2019. Per la vicenda il medico, 32 anni, era stato licenziato e sospeso dall’Ordine e iscritto insieme al marito della donna nel registro degli indagati per la sua morte. A quattro anni dall’inizio delle indagini il pm Stefano Luciani ne ha ora chiesto il rinvio a giudizio, accusandoli di omicidio volontario e contestando loro tre aggravanti: l’utilizzo di sostanze con “effetto venefico”; il fatto che la donna fosse in condizioni di salute cagionevoli e quindi incosciente e l’aver abusato
dei poteri derivanti dall’impiego di medico in una struttura pubblica.
Il prossimo 10 novembre, nel corso dell’udienza preliminare, il gup, Daniela Ceramico D’Auria, dovrà decidere se accettare la richiesta avanzata dalla Procura, facendo finire i due a processo. A renderlo noto è il Corriere della Sera, che riporta anche le opinioni degli ex colleghi del medico finito nei guai. Tutti, secondo il quotidiano, lo apprezzavano per il suo lavoro.
Rimanemmo sorpresi di quella decisione, forse sbagliata, ma presa in un frangente terribile, che lo coinvolse da un punto di vista umano e professionale,
spiega qualcuno. Era stato lui a fare chiarezza sul tipo di sostanza iniettata alla donna. Nel corso degli anni però non ha mai spiegato il perché della sua decisione, preferendo il silenzio.
La questione dell’eutanasia
Il marito della donna, al contrario, ha sempre parlato, sostenendo che fosse stata lei a chiedere l’eutanasia, che però in Italia è illegale. Dal 2019 si può ricorrere, per legge, al suicidio medicalmente assistito, cioè l’aiuto – indiretto – a morire da parte di un medico, a patto che vengano rispettate delle condizioni: chi lo richiede deve essere affetto da una patologia irreversibile e ricevere trattamenti di sostegno vitale, ma al tempo stesso essere totalmente capace di intendere e di volere.
Finora lo hanno richiesto in due: Federico Carboni, il paziente tetraplegico morto a 44 anni nel 2022, e “Gloria”, una paziente oncologica di 78 anni, spentasi lo scorso luglio. Entrambi hanno ricevuto un’iniezione letale sotto il controllo del dottor Mario Riccio, lo stesso che nel 2006 aveva assistito Piergiorgio Welby, noto per le sue battaglie contro l’accanimento terapeutico. Le loro storie sono simili a quelle delle molte persone che, da anni, chiedono di poter mettere fine alla loro vita.
Una lotta di cui alcuni hanno fatto una vera e propria missione, come Marco Cappato, l’ex deputato che nel 2017 accompagnò Fabiano Antoniani, noto come Dj Fabo, in Svizzera, per avere accesso al suicidio assistito di cui in Italia non poteva ancora godere. Di recente per la vicenda è stato assolto, ma continua a gran voce a chiedere di rispettare il diritto alla morte dei malati terminali.