Erminia Dionis Bernobi vive a Trieste, dove ha sede anche la sua storica sartoria; ha 92 anni e mezzo e da tempo è diventata un punto di riferimento per il racconto della tragedia istriana, sia perché l’ha vissuta in prima persona, sia perché ha vissuto da vicino la storia di Norma Cossetto, di cui il 5 ottobre ricorrono gli 80 anni dalla morte nelle foibe. In esclusiva su Tag24 la sua preziosa testimonianza.
80 anni dalla morte di Norma Cossetto nelle foibe: la testimonianza di Erminia Dionis Bernobi
“Quando si avvicinano date come questa per me è sempre difficile. Il ricordo è ancora vivo e fa male”. Con queste parole Erminia Dionis Bernobi ha voluto iniziare il racconto della tragedia che ormai 80 anni fa sconvolse la sua vita e quella di tante persone a lei vicine: la morte per infoibamento dell’amica Norma, cugina di quello che sarebbe diventato suo marito. Era il 1943. Norma aveva 23 anni, lei 12.
Tre anni dopo, nel 1946, avrebbe avuto inizio il suo esodo. “Sono dovuta scappare, altrimenti sarei finita anche io nelle foibe. Avevo 15 anni. Ero stata cacciata dalla scuola perché non rispettavo il regolamento e mi ero rifiutata di scrivere sul quaderno ‘Io amo Tito’, quindi ero finita a lavorare in una sartoria. Aiutavo. Un giorno sentii un tizio entrare nel negozio e urlare: ‘Tutti i Cosetto in foiba, tutti i Cosetto in foiba’. Mia sorella aveva sposato il primo cugino di Norma e aveva dato alla luce un bambino dieci giorni prima, il 14 agosto”, racconta.
“Ero preoccupata che potessero prendersela anche con la sua famiglia. Ero dietro la tenda, avrei voluto colpire quell’uomo con delle forbici, ma ero piccola, non sarei riuscita neanche a dargli uno schiaffo. Gli ho sputato, gli ho detto ‘Porco vigliacco’ e sono scappata via. Quando sono arrivata a casa, in lacrime, mia madre mi ha chiesto cosa fosse successo. Ho risposto: ‘Niente, niente’. Non volevo raccontarle nulla. Fu il sarto, che aveva assistito alla scena, a dirle tutto. Venne da noi e disse a mia madre di mandarmi via immediatamente”.
L’esodo obbligato dopo la morte di Norma
“Doveva aiutare un bambino a fuggire, così decise di mandarmi con lui – prosegue Erminia -. È stata dura, per mia mamma – che era rimasta vedova con quattro figlie (ed era stata aiutata dal papà di Norma a ottenere un lavoro da bidella) – per me, per tutti. Ho dovuto lasciare tutto e incamminarmi a piedi, di notte. Dormii in un casolare, sul fieno. La mattina dopo arrivai a Trieste da un fratellastro di mio zio. Era la fine della guerra, non c’era niente. Mi accontentavo di quello che mi offrivano e per tre anni ho vissuto da apolide, senza nome e cognome, perché non avevo i documenti: sarebbe servito il certificato di nascita, ma mia madre non poteva inviarmelo”.
Gli anni del silenzio
In Italia per lei aveva avuto inizio una nuova vita. Una vita resa difficile dai ricordi che l’accompagnavano e che lei per tempo ha deciso di tenere per sé. “Non ho mai raccontato niente a nessuno – spiega -: né ai miei figli, né ai nipoti. Trent’anni fa, in occasione di un raduno degli esuli, fui incaricata dalla FederEsuli, l’Associazione degli Esuli Istriani Fiumani e Dalmati, di cucire dei costumi istriani: uno da pescatore, uno da contadinella e uno “da festa”, come quello che i contadini indossavano dopo il lavoro per andare a messa. Una giornalista venne a vedere i costumi e a farmi un’intervista”.
“Le spiegai che ero andata via da Santa Domenica da adolescente, che erano ricordi dolorosi e che non volevo parlarne – racconta -. Avevo promesso a mia madre che non l’avrei mai fatto. Sui cinquant’anni con mia sorella avevamo iniziato a scrivere ciò che ricordavamo in un quaderno: avevamo deciso che non avremmo parlato, ma avremmo lasciato uno scritto. Prima di morire lei decise di bruciarlo, pensava che la verità fosse troppo brutta da raccontare. Mi diceva che avremmo dovuto parlare solo delle cose belle, dei successi che avevamo ottenuto (lei era diventata una sarta, ad esempio, ndr)”.
Una decisione che l’aveva fatta soffrire, perché in quegli scritti per anni aveva raccolto le sue memorie, “la storia di Norma, i nomi dei suoi aguzzini, che non erano, come ha detto qualcuno, ‘venuti da fuori’, ma erano nostri compaesani”. Così aveva deciso di parlare e della sua testimonianza ha fatto una missione di vita. “Sono rimasta l’ultima – dice -, ho 92 anni e mezzo. Combatto e vado avanti ricordando quello che è successo”.
La voglia di parlare
La sua voglia di parlare l’ha portata a scrivere un libro: si intitola “Una vita appesa a un filo” e uscirà tra un mese. Conterrà, dice, una parte dedicata ai più piccoli, alla didattica. “Ascoltavo ieri che Menia (FdI, ndr) parla di una legge con cui lo Stato si impegnerà a portare i ragazzi dove ci sono le foibe. Trovo che sia una cosa giusta, anche se magari non capiranno molto, perché sono passati 80 anni. Ma è importante”.
“Ricordo che a un mio nipote raccontai tutto una sera che dormiva con me, come se fosse una storia – racconta, commossa -. La storia di una bambina che era stata costretta ad andarsene e che poi, dopo tanti anni, si era sposata ed era felice. Avevo le lacrime agli occhi e lui mi disse: ‘Nonna non piangere, questa bambina ormai starà bene, avrà dimenticato tutto’. Quando cominciò a vedere comparire il mio nome sui giornali mi prese sottobraccio e mi disse: ‘La tua non era solo una storia, eri tu quella bambina, devi dirmi la verità’”. È ciò che ha fatto e continuerà a fare, conclude, finché avrà memoria.