Che Alice Scagni fosse stata uccisa dal fratello Alberto era certo. Il processo si è giocato, piuttosto, sulla capacità di intendere e di volere dell’imputato, dichiarato dallo psichiatra nominato dall’accusa, Giacomo Mongodi, totalmente capace, e da quello nominato dal gip, Elvezio Pirfo, capace di stare in giudizio, ma seminfermo di mente.

A quest’ultimo sembra aver dato ragione, alla fine, la sentenza con cui la Corte d’Assise del Tribunale di Genova ha condannato il 42enne a 24 anni e 6 mesi e non all’ergastolo come richiesto dall’accusa, che gli aveva contestato tre aggravanti, di cui solo una è rimasta in piedi: la premeditazione. Abbiamo parlato del risultato con uno dei legali della difesa, l’avvocato Alberto Caselli Lapeschi.

Alice Scagni uccisa dal fratello Alberto, la reazione dell’avvocato Caselli Lapeschi alla sentenza di condanna

Avvocato, come difensori vi aspettavate questo risultato?

“Con il collega Mirko Bettoli, che è l’avvocato di fiducia di Alberto Scagni (io sono il sostituto processuale dello stesso), abbiamo lavorato per ottenere questo risultato. Razionalmente contavamo sulla bontà delle ragioni spese, che sono state in buona parte accolte; poi sulla bontà delle ragioni non bisogna mai farci affidamento e sapere che si può anche perdere o perdere in parte. Sul fronte dei difensori quindi siamo tutti più che soddisfatti”.

Un successo, quindi…

“Assolutamente. L’impianto difensivo nel suo complesso è risultato confermato: è risultata confermata la patologia psichiatrica, il vizio parziale di mente, è caduta l’aggravante del mezzo insidioso, è caduta l’aggravante della crudeltà. Rimane quella della premeditazione, vedremo come i giudici motiveranno sul punto”.

Come l’ha presa l’imputato?

“Ritengo che l’imputato l’abbia presa bene. Dico ritengo perché come da prassi è stato immediatamente portato via dalla polizia penitenziaria, quindi non ho avuto modo di parlare con lui nell’immediatezza della lettura del dispositivo della sentenza. L’impressione è che sia rimasto moderatamente soddisfatto visto che non è arrivato il temuto ergastolo, che era un rischio che correva”.

Sulla siminfermità e le circostanze aggravanti

Il processo si è giocato molto sulla capacità di intendere e di volere dell’imputato. Riconoscendone la seminfermità, la Corte d’Assise sembra aver dato ragione alla perizia del professor Elvezio Pirfo. Può ricordarci a quali conclusioni era arrivato?

“La perizia era stata fatta in sede di incidente probatorio, nel corso delle indagini. Lo psichiatra nominato dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Genova aveva dichiarato, come ha ripetuto in aula –  e come ho pienamente ribadito io in fase di discussione – che Alberto Scagni all’epoca della commissione dell’omicidio e nei mesi precedenti, nelle settimane precedenti, fosse affetto da un disturbo grave di personalità tale da comportare il vizio parziale di mente (il riferimento è all’art. 89 del Codice Penale)”.

Ieri in udienza aveva parlato dell’insussistenza di tutte e tre le aggravanti contestate dall’accusa, compresa la premeditazione (ora riconosciuta)…

“A mio avviso, ma evidentemente la Corte è di avviso diverso (e vedremo per quali ragioni), non c’è nessun elemento perché si possa ritenere che Alberto Scagni quel pomeriggio si potesse attendere che sarebbe scesa proprio la sorella. Lo dico sulla scorta delle dichiarazioni rilasciate dal marito, che sembra fosse solito portare fuori il cane 19 volte su 20. Poi, a differenza di quanto è stato riportato da alcuni, non ho detto che Alberto era lì ad attendere il cognato, non posso saperlo”.

Le previsioni per il futuro

Visto l’andamento del processo, cosa vi aspettate per il futuro?

“Quando ci saranno le motivazioni, quindi all’inizio dell’anno prossimo, noi tutti, accusa e difesa, potremo vederle e fare ciascuno le proprie valutazioni in ordine all’impugnazione della sentenza che, verosimilmente (e questa è una previsione), per ragioni antitetiche sarà impugnata sia dall’accusa che dalla difesa. È lo scenario più plausibile”.