Pensioni più basse per chi vive di più: è questo uno dei meccanismi allo studio dell’Inps, finito anche sul tavolo del governo che sta lavorando alla riforma previdenziale.

Proposta Inps: pensioni più basse per chi vive di più

Ricollegare i requisiti per la pensione, come l’età e i contributi versati, al tipo di lavoro svolto e alla zona di residenza. Pertanto, creare una serie di condizioni di uscita diversificate in base alla natura dell’occupazione, seguendo il principio “pensione in rapporto al lavoro svolto”. Questa la proposta dell’Inps per riformare il sistema previdenziale.

Recentemente, uno studio dell’Istituto voluto dai membri del Movimento 5 Stelle ha proposto questa idea, che è stata discussa nel campo delle pensioni. Tuttavia, secondo fonti governative, si tratta ancora di uno studio e non di un’ipotesi pratica da attuare immediatamente, poiché richiederebbe molto tempo per essere messa in pratica e non può essere realizzata in soli due mesi di legislatura.

Cosa dice lo studio dell’Inps

Lo studio si basa sull’analisi dei dati dell’INPS riguardo ai pagamenti delle pensioni e alla loro durata. Si è scoperto che un dirigente vive più a lungo di un operaio e che i pensionati di alcune zone geografiche hanno una maggiore longevità rispetto a quelli di altre regioni. Da qui deriva un collegamento tra il tipo di lavoro svolto, il luogo di residenza e l’aspettativa di vita.

Tuttavia, come sottolineano gli esperti demografi, nell’aspettativa di vita entrano in gioco molte altre variabili, come l’istruzione e la genetica, che rendono difficile creare un’aspettativa di vita specifica per ogni categoria professionale.

Attualmente, l’aspettativa di vita viene presa in considerazione globalmente come parametro per l’aumento generale dell’età pensionabile e dei contributi richiesti. Questo meccanismo è stato introdotto dalla riforma previdenziale del 2009 di Maurizio Sacconi e Giulio Tremonti, ed è stato rafforzato dalla riforma di Elsa Fornero alla fine del 2011.

Un discorso a parte è quello riguardante i lavori gravosi e l’accesso all’Ape sociale. Nel corso degli anni sono state identificate diverse categorie di lavori gravosi, per i quali è prevista la possibilità di lasciare il lavoro in pensione a partire dai 63 anni, con un’indennità che accompagna il percettore verso la pensione. Come si può notare, si tratta di meccanismi specifici e limitati che non coprono la generalizzazione del collegamento tra età, lavoro e requisiti pensionistici.

Come funzionerebbe

Alla base di questa proposta si cela un concetto semplice: è necessario considerare che le persone meno abbienti, spesso, hanno una minore aspettativa di vita. Pertanto, pagare loro gli assegni pensionistici con lo stesso coefficiente di trasformazione utilizzato per i cittadini più ricchi va solo a favore di quest’ultimi. Il coefficiente di trasformazione, che è il valore che contribuisce al calcolo della pensione mediante metodo contributivo, è uguale per tutti e non tiene in considerazione fattori quali il tipo di lavoro svolto, più o meno logorante, e la regione in cui si vive, con le relative differenze nell’efficienza sanitaria.

Inoltre, i coefficienti di trasformazione variano in base all’età in cui il lavoratore ottiene la prestazione pensionistica, a partire dai 57 anni (nel caso di lavoro molto precoce) fino ai 71 anni (nel caso in cui non si abbiano gli anni di contribuzione sufficienti per andare in pensione a 67 anni). Maggiore è l’età del lavoratore, maggiori saranno anche i coefficienti di trasformazione.

Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, che ha analizzato i dati dell’INPS:

  • un pensionato iscritto al fondo dei lavoratori dipendenti, che comprende anche operai e impiegati, ha in media un’aspettativa di ricevere l’assegno pensionistico per 17,6 anni.
  • Un ex dirigente, invece, percepirà la pensione in media per 19,7 anni.

Con riferimento alle regioni, si possono osservare delle differenze tra Nord, Centro e Sud. Dai dati analizzati dal giornale, ad esempio, emerge che

  • Le donne residenti in Trentino Alto Adige percepiranno la pensione in media per oltre 4,5 anni in più rispetto alle pensionate della Campania e della Sicilia (21,6 anni contro 17,1).
  • Per quanto riguarda gli uomini, si fa l’esempio di Marche e Umbria, dove i pensionati vivranno in media altri 18,3 anni dopo aver smesso di lavorare a 67 anni. In Campania e Sicilia, invece, il dato scende a 17 anni.

Un fattore che si intreccia con quello territoriale è il reddito, ad esempio:

  • il dato relativo alle donne residenti in Trentino Alto Adige sale fino a 22,5 anni se l’ex lavoratrice appartiene a una fascia alta di reddito;
  • mentre per gli uomini delle Marche e dell’Umbria raggiunge i 19,4 anni.

A livello nazionale, secondo il Corriere della Sera, un pensionato che si trova nella fascia più bassa di reddito percepirà l’assegno per circa 16 anni, mentre uno che si trova all’estremo opposto economicamente lo riceverà in media per 20,9 anni.