Elisa Claps scomparve a Potenza quando aveva 16 anni. Fu trovata morta, molti anni dopo, nel sottotetto della Chiesa della Santissima Trinità. Per tempo era stata cercata ovunque: sarebbe bastato recarsi a poca distanza dalla casa in cui viveva con la famiglia, nell’ultimo posto in cui era stata avvistata con quello che si scoprirà essere il suo assassino. La storia del suo omicidio è una storia fatta di menzogne, congetture e false verità. Una storia lunga 30 anni, iniziata la mattina di una domenica del 1993 e che oggi non si è ancora conclusa del tutto. La racconta bene Fabio Sanvitale nel libro “Il caso di Elisa Claps. Storia di un serial killer e delle sue vittime”, scritto insieme ad Armando Palmegiani ed edito da Armando Editore nel 2019.
Intervista a Fabio Sanvitale, autore del libro “Il caso di Elisa Claps. Storia di un serial killer e delle sue vittime”
Quello di Elisa Claps è ormai tra i casi di cronaca più noti del nostro Paese. Perché la decisione di raccontare proprio questa storia?
“La storia è stata raccontata perché le storie, anche quando sono molto note, certe volte c’è sempre spazio per raccontarle di nuovo, perché non tutti le conoscono o perché ci sono dei particolari che non sono stati sufficientemente spiegati o raccontati o sono emersi precedentemente. Raccontare una storia già nota serve per farla sapere essenzialmente a chi non la conosce ancora. E poi questa è una storia abbastanza emblematica, che meritava di essere raccontata nuovamente”.
Nel libro, oltre ai protagonisti della triste vicenda, sembra emergere – come se fosse un personaggio a sé – anche la città di Potenza che, se vogliamo, ha un ruolo in questa storia. Può spiegarci in cosa consiste?
“La città è stata silenziosa. Una larga parte dei potentini si è sentita infatti poi messa sotto accusa, quando sono cominciate le indagini. Credo con un certo fastidio. Tuttavia era innegabile che tanti fossero a conoscenza del corpo e che abbiano preferito un lungo e ostinato silenzio piuttosto che mandare anche semplicemente una lettera anonima. Il fatto è che Potenza è una città in cui si conoscono tutti, questo ha chiaramente complicato la situazione. Se fosse successo a Torino, a Milano, a Napoli, a Roma, non sarebbe andata nella stessa maniera”.
La soluzione del caso era sotto gli occhi di tutti, invece ci sono voluti tanti anni per arrivare – almeno in parte – alla verità, 17. Al di là dell’omertà di chi sapeva e non ha parlato, pensa che si sarebbe potuto fare di più? Cosa si è sbagliato?
“Si è sbagliato nell’avere un’eccessiva deferenza rispetto a quella Chiesa (quella della Santissima Trinità, dove fu ritrovato il corpo della giovane, ndr) e al parroco di quella Chiesa (don Mimì Sabia, ndr). Se si fosse entrati anche semplicemente per un sopralluogo, quindi senza buttare all’aria tutto, per dare un’occhiata, si sarebbe trovata Elisa. Senza alcun dubbio. Il fatto di non esserci entrati per tutto quel tempo fa pensare effettivamente a una deferenza nei confronti del parroco, che era sicuramente una figura di spicco, là dentro. C’è quindi un ruolo della Chiesa, ma anche un ruolo di chi l’ha rispettata troppo”.
È una questione che si è posta anche con la recente riapertura della Chiesa, con tanto di targa dedicata a Don Mimì…
“Certo. Lì poi siamo proprio nel campo della totale mancanza di rispetto”.
Le indagini, gli omicidi, la condanna di Danilo Restivo
Perché secondo Lei per tempo si è creduto all’innocenza di Danilo Restivo, nonostante i suoi atteggiamenti quantomeno “strambi”?
“Su quello ha influito l’errore originario della dottoressa Genovese (Felicia, la pm che per prima indagò sul caso, ndr), che sostanzialmente si è lasciata manipolare da Restivo, arrivando a credere che fosse semplicemente un povero fessacchiotto e quindi non un personaggio pericoloso. Però personaggi come lui tante volte sono pericolosi ma molto abili a mostrarsi timidi, ingenui. Ed è il ruolo che Restivo ha recitato per tutta la vita. Al processo inglese faceva quello che non capiva, lo straniero, sempre con l’aria del perseguitato, quando invece era lui a perseguitare”.
Comunque c’erano stati dei dettagli che, all’inizio, potevano far pensare che fosse coinvolto. Penso ai vestiti sporchi di sangue, ad esempio…
“Il fatto è che, per quanto la squadra mobile all’inizio abbia sospettato di Restivo, tuttavia alcuni elementi non c’erano: non c’erano quei vestiti, che nel frattempo erano stati lavati, era difficile collocare con certezza Danilo Restivo sul luogo del delitto (che non si sapeva nemmeno bene quale fosse). C’erano sicuramente molti indizi che derivavano dal suo racconto sconnesso e dai suoi precedenti, però non si riusciva ad avere una prova più certa. Il punto era che si sarebbe dovuto impiantare un processo indiziario, con tutti i rischi di perderlo. Sempre perché non si è entrati subito nella Chiesa, naturalmente. E per la sfortuna di non essere riusciti ad incappare subito in quegli abiti”.
La situazione si è smossa con il secondo omicidio, in Inghilterra. Da lì, e poi con il ritrovamento del corpo di Elisa, i pezzi del puzzle sono tornati insieme…
“Anche lì si è creata una situazione simile. Contro Restivo c’erano tanti indizi però si avevano dei dubbi. Anche gli inglesi non hanno avuto il coraggio di arrestarlo, pensando di non avere delle prove schiaccianti, che sono emerse solo molto dopo, effettivamente, con i progressi del Dna. Progressi con cui è stato possibile, tramite l’asciugamano verde (su cui furono trovate tracce di sangue del killer, ndr), collocarlo sulla scena del crimine”.
E poi, attraverso altri accertamenti, su quella in cui si era consumato l’omicidio di Elisa. Che utilità ha, secondo Lei, leggere di storie simili? E perché bisognerebbe leggere il suo libro?
“Perché storie come queste non si possono dimenticare. Nella loro drammaticità alcune storie sono più esemplare di altre, ci raccontano qualcosa che ci fa capire il tempo in cui viviamo. Questa storia purtroppo rende drammaticamente una città, rende drammaticamente un rapporto tra la sua famiglia e suo figlio (spiegandoci, banalmente, che se si ha un problema si deve andare dallo psicologo), ci fa capire quale sia il valore dell’omertà e anche, ancora una volta, il ruolo che la Chiesa si prende in situazioni come queste. Parlare soltanto di Danilo Restivo è più affascinante: è l’assassino. Ma anche parlare della vittima è importante, perché è l’unico modo per tenerla in vita”.