A poco più di un anno dalla sua scomparsa Masha Amini, la ventitreenne iraniana deceduta in circostanze sospette dopo essere stata arrestata per aver indossato il velo islamico, l’hijab, in modo “non corretto”, non è stata certamente dimenticata, specialmente in Iran.

Come è noto, infatti, la morte della ragazza ha fatto esplodere in Iran una vera e propria ondata di manifestazioni contro l’oppressione delle donne – condizione di cui Masha Amini è diventata un simbolo – da un anno brutalmente represse nel sangue. Secondo i dati di Human Rights Activists News Agency, da settembre 2022 a marzo 2023 più di 530 manifestanti, di cui 71 bambini, sarebbero morti nei moti di dissenso contro il regime.

Souad Sbai: “Il punto non è il velo: la radicalizzazione islamica va fermata. Bisogna poter parlare di immigrazione senza essere tacciati di razzismo”

Neanche l’Occidente, tuttavia, ha dimenticato la morte di Masha Amini. La scorsa settimana, in occasione dell’anniversario della scomparsa della giovanissima, in diverse città europee e italiane si sono tenuti presidi a supporto della libertà delle donne iraniane. Anche il Parlamento europeo, infine, ha dedicato una seduta alla memoria della giovane.

La necessità di difendere i diritti delle donne islamiche, tuttavia, non riguarda solo l’Iran. È necessario domandarsi, infatti, come supportare l’emancipazione delle donne di fede islamica anche in Europa, cercando di comprendere se e come queste donne vivano sulla loro pelle, anche se residenti in Occidente, quelle condizioni di sottomissione determinate dal fanatismo religioso.

Della reale condizione delle donne islamiche e della necessità di supportare la loro emancipazione la redazione di TAG24 ha parlato, in questa intervista esclusiva, con Souad Sbai, ex parlamentare del PdL, saggista e giornalista originaria del Marocco che ha dedicato alla sua vita alla difesa della condizione delle donne arabe immigrate in Italia, fondando anche le associazioni Acmid Donna Onlus e Centro Averroè.

Dottoressa Sbai, è passato un anno dalla morte di Mahsa Amini. Cosa ha imparato l’occidente da questa terribile storia?

«Mah, imparato qualche cosa non credo. Proprio oggi, mentre noi parliamo, in Iran è uscita una nuova legge ancor più restrittiva nell’obbligare le donne a indossare il velo. Difficile dire che l’Occidente abbia imparato se tratta con l’Iran, il paese dei khomeinisti che massacra le donne tutti i giorni. Questo non dovrebbe succedere, ma succede in Iran, in Afghanistan, dove le donne sono abbandonate drammaticamente a se stesse.

Almeno l’Unione Europea dovrebbe prendere posizione seriamente contro chi danneggia i diritti delle donne e massacra i diritti umani. Anche perché parliamo di regimi terroristici che hanno come obiettivo quello di attaccare l’Occidente, di cui odiano la cultura libera e liberale».

Nella sua opinione l’Unione Europea strizza l’occhio alla politica del velo? Il riferimento è alla campagna della Commissione europea che ha per protagonista una giovane con l’hijab.

«Guardi, io ho combattuto per anni per far comprendere come il movimento islamista della Fratellanza musulmana andasse considerato come un movimento politico più che culturale. Il punto è che l’Europa perde tanto tempo dietro il tema del velo e non vede l’avanzamento degli integralismi che quel velo nasconde e promuove.

Da donna araba ho imparato a non perdere tempo in queste battaglie fasulle che producono solo l’effetto di distogliere l’attenzione dal progetto dell’islamismo radicale, fatto sulla testa delle donne, che intanto avanza nella vita sociale, economica e culturale.

Pensare che questi fondamentalisti pensino a integrarsi in un Paese occidentale è pura utopia. La loro battaglia è sulla non integrazione, non il contrario: oggi il velo, domani il burqa. Per questo la politica europea deve fermare la balzata del movimento della Fratellanza musulmana, movimento islamista radicale che ha sempre appoggiato anche il terrorismo».

Le battaglie sul velo in Europa sono condotte, a suo giudizio, in modo superficiale?

«Molto superficiale. Io sono 25 anni che faccio battaglia contro queste posizioni, e non solo rispetto al velo. Ciò che trovo orribile è sostenere che bisogna dialogare con questi Paesi integralisti. C’è poco da dialogare.

Quello su cui l’Europa deve puntare è sulla certezza della pena e su leggi molto severe in tema di violenza della donna. Occorre fermare chi vuole portare il pensiero radicale nei nostri Paesi, occorre fermare quelle tantissime moschee “fai da te” e le madrasa – le scuole coraniche – che sono qui nonostante non esistano più in tanti paesi arabi. Questo progetto di avanzamento deve essere fermato con leggi severe, inutile perdere tanto tempo con altro».

Queste battaglie che a suo giudizio rallentano dal perseguimento dei reali obiettivi sono volute o semplicemente frutto di un’ipocrisia?

«Ignoranza: in molti non vanno a fondo e non studiano le questioni. Non si approfondisce chi sono i personaggi che impongono questi leggi e si fa una propaganda che fa gioco ai gruppi fondamentalisti. Loro vogliono che noi continuiamo a parlare del velo, e noi cadiamo nell’errore di farli passare per vittime».

Si parla tanto di accoglienza e di integrazione. Ma come vivono le donne musulmane in Italia? Sono più libere o subiscono le stesse regole a cui sono sottoposte nei loro Paesi di provenienza?

«Paradossalmente vivono peggio qui che nei loro paesi di provenienza, perché lì, nel bene o male, hanno dietro una comunità, una rete familiare, amicale e associativa. Sono più protette.

Qui, invece, è diverso. Basti vedere la recente sentenza del tribunale di Brescia. In molti si sono stupiti, ma non è la prima volta che vengono date attenuanti culturali e religiose in processi per violenza contro le donne. Ogni volta cadono le braccia.

La magistratura deve metterci la faccia e processare se ci sono dei soprusi e delle violenze, se le donne non possono uscire di casa e le bambine andare a scuola. Le denunce vanno rispettate: la violenza è violenza, non possono esserci attenuanti. Io l’ho visto con la storia di Rashida, donna marocchina massacrata dal marito nel 2011, ma anche con tanti altri processi.

C’è un paradosso: seguiamo noi le loro culture o loro devono rispettare le leggi del nostro Paese? Noi dobbiamo essere chiari in questo: se si devono rispettare le regole non si deve guardare in faccia nessuno. Inutile avere quel pietismo o quella paura di passare per razzisti. La legge è uguale per tutti: dagli svedesi ai tunisini. Su questo dobbiamo essere più severi, invece si tende a proteggere queste persone con l’effetto di scoraggiare le donne, che rimangono sole perché hanno paura di denunciare».

Come smascherare questa ipocrisia?

«Chiaramente serve la politica, da cui dipende anche la magistratura. Forse a qualche pm serve un bel corso in qualche centro antiviolenza. Forse non conoscono la realtà e non arriva loro il messaggio di tutte le donne in difficoltà. E così le sentenze vengono annullate.

Penso al caso di Salsabila: nonostante gli sforzi per denunciare, per fare appello, adesso siccome non si riesce a trovare il marito colpevole delle violenze si è deciso di archiviare il dossier. Perché non lo processano per contumacia, dopo che ha massacrato la moglie per una vita? Ho l’impressione ci sia la volontà di lasciar fare per non disturbare “l’altro”. Con questo atteggiamento, però, questi violenti avranno sempre più forza.

Noi sono 25 anni che combattiamo, ma ogni anno facciamo un passo avanti e dieci indietro. Abbiamo denunciato come tante bambine non riescano ad andare a scuola. Abbiamo denunciato la presenza di centri culturali, presenti anche in Italia, dove si insegna a lapidare le donne.

Dobbiamo capire che c’è un Islam pacifico e un Islam radicale che fa politica e propaganda, contando peraltro su tanti soldi. La presenza di centri di islamizzazione radica è una vergogna per l’Occidente, eppure nessuno fa niente. Abbiamo moschee non controllate dove si inneggia allo jihadismo, imam fai da te che predicano terrorismo.

Queste presenze non solo fanno male alla cultura occidentale, ma anche a quella islamica. Se continueremo a tollerare, tornare indietro sarà sempre più difficile, come vediamo in Francia, Belgio e Svezia. Le radici marce vanno estirpate senza ambiguità. Oggi tocca alle donne iraniane, domani toccherà anche alle donne italiane.

Dobbiamo essere attenti e guardare ai dettagli. L’altro giorno ho visto un formaggio “halal”, ovvero lecito. Ma che significa? Capisco la macelleria ma questo no. Il discorso è però più vasto: ora ci sono anche gli smalti halal e il trucco halal. Non a caso anche Sephora, il marchio della cosmesi, è caduto in questo gioco per fare pubblicità. Il punto è che su queste donne si gioca il futuro della libertà di tutti quanti.

Allo stesso tempo è importante non generalizzare: questo fenomeno riguarda oggi meno il 3% dei musulmani. Il problema è però che avanza, anche grazie al supporto dei milioni di euro messi a disposizione dai Paesi a loro amici.

Crede ci sarà mai il rischio che nelle città italiane si creino situazioni come quelle delle banlieue francesi?

«Già ci sono, basta andare a Milano o a Roma. Certamente non si vedono nei centri delle città, ma ci sono aree dove comandano dei giovani radicalizzati. Il problema è capire come fare. L’immigrazione non è una parola che può essere citata solo nell’emergenza, ma va affrontata tutti i giorni con strutture che si occupino di scuole, di diritti, di deradicalizzare là dove è necessario. Il terrorismo va rispedito a casa.

Bisogna parlare di immigrazione come un modello da trattare senza difficoltà e imbarazzo, come tanti altri temi. Non bisogna avere paura. Bisogna studiare il fenomeno con serenità, senza pensare che chi se ne occupa o lancia allarmi lo fa perché è razzista. Io non ci sto, non è assolutamente così. Si tratta di capire che un conto è la cultura, un altro le leggi che tutti devono rispettare».