Come saranno le città e come saremo noi, cittadini del futuro? Non è una domanda da “Chissà chi lo sa?”, la trasmissione televisiva degli anni Sessanta per i ragazzi delle scuole medie superiori, ma da maghi. Eppure, occorre pensarci e qualche risposta ci viene data da esperti, senza che sia necessario scrutare la sfera di cristallo. 

Una interessante riflessione sul tema è proposta da Cesare Alemanni sugli Appunti di Stefano Feltri. Afferma che anche anche oggi sono “le province e le campagne a servire le città. Esse sono diventate i luoghi in cui si svolgono le operazioni materiali più avanzate del capitalismo contemporaneo”. Si riferisce a quei grandi capannoni, le case di internet, dislocati in posti lontani dalle città. Sono i data center.

L’urbanista Rem Koolhas gli ha dedicato la mostra “Countryside: the future” e nella presentazione scrive “che la nostra attuale forma di vita urbana ha reso necessaria l’organizzazione, l’astrazione e l’automazione della campagna su una scala senza precedenti”.

Data center come navicelle disinteressate ai luoghi d’atterraggio

E Alemanni aggiunge: “Il problema è che questa automazione si pone in una relazione del tutto sbilanciata rispetto ai luoghi in cui fisicamente avviene. I data center occupano molto spazio ma pochissimo personale. E la loro logica operativa si regge su previsioni di attività, fatte di alte e basse maree, che rendono precarissimi gli impieghi che offrono. Impieghi che a loro volta sono in feroce, e ormai quasi globale, competizione (al ribasso) tra loro”.

Di lavoro per gli urbanisti ce n’è perché “data center, centri logistici, sono navicelle che atterrano dove gli serve (e conviene) ma hanno poco o nullo interesse per la specificità dei luoghi d’atterraggio” scrive Cesare Alemanni.

Stefano Bisi