«I maltrattamenti non costituiscono reato perché riconducibili ad un fatto culturale»: questa la presa di posizione del Pm di Brescia, che ha chiesto l’assoluzione del marito cingalese accusato dalla moglie di abusare di lei fisicamente e psicologicamente. La donna, connazionale del suo ormai ex consorte, era stata costretta a sposare l’uomo in un matrimonio combinato e aveva proceduto con la denuncia nel 2019, per poi firmare tutte le carte necessarie al divorzio.

Quando, quattro anni fa, il caso della 27enne cingalese residente in Italia fin da quando era molto piccola era giunto in Procura, i Pm avevano subito richiesto la sua archiviazione. In quell’occasione, era stato il Gip ad insistere di tenere aperto il caso, affermando che sussistevano «senz’altro elementi idonei a sostenere efficacemente l’accusa in giudizio nei confronti dell’ex marito».

Ora la storia si ripete: i Pm sono tornati alla carica, ribadendo l’ipotesi già sostenuta del reato culturalmente orientato:

I contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’odierno imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine.

I Pm di Brescia chiedono l’assoluzione del marito cingalese accusato di maltrattamenti alla moglie. Lei risponde: “La cultura di origine non può essere una scusa. Sono stata trattata da schiava”

Ovviamente, la 27enne cingalese protagonista di questa drammatica vicenda, di vita e giudiziaria, non ha preso bene il tentativo di difesa dei Pm. «La cultura di origine non può essere una scusa. Sono stata trattata da schiava», ha commentato. Secondo la vittima, dunque, non c’è scusa che tenga davanti ad un maltrattamento, tra l’altro avvenuto in Italia: la legge parla chiaro ed il suo ex marito dovrebbe essere punito indipendentemente dalle usanze culturali in cui si riconosce.

Tra l’altro, una precedente sentenza del Tribunale di Brescia dà piena ragione alla donna. Un caso simile (un padre islamico che picchiava la figlie) era terminato con la condanna dell’imputato, giustificata con le seguenti parole:

I soggetti provenienti da uno Stato estero devono verificare la liceità dei propri comportamenti e la compatibilità con la legge che regolal’ordinamento italiano. L’unitarietà di quest’ultimo non consente, pur all’interno di una società multietnica quale quella attuale, la parcellizzazione in singole nicchie, impermeabili tra loro e tali da dar vita ad enclavi di impunità.

Rifacendosi a questa sentenza, rimangono dunque pochi dubbi: l’accusato, sebbene nato e cresciuto in una cultura diversa da quella italiana, deve rispondere in toto alle leggi del nostro Paese.