Era il 10 settembre di 42 anni fa. A Palermo il maresciallo dei carabinieri Vito Ievolella veniva ucciso in piazza da quattro killer di mafia: ecco la sua storia.

Vito Ievolella, storia del maresciallo dei carabinieri ucciso dalla mafia

Nato a Benevento il 4 dicembre 1929, Ievolella era il penultimo di dieci figli di una famiglia di contadini. Aveva appena 19 anni quando decise di arruolarsi nell’Arma dei carabinieri. Il suo obiettivo, dirà più tardi, era quello di contribuire a difendere i deboli. Tra il 1958 e il 1959, dopo aver frequentato il corso Allievi Sottoufficiali della scuola di Firenze, fu assegnato alla legione di Palermo.

La sua vita nel capoluogo siciliano cambiò per sempre. Dopo aver maturato qualche anno di esperienza decise, infatti, di dedicarsi alla lotta contro la criminalità organizzata, dimostrando fin da subito un’acuta sensibilità, che gli permise di capire e penetrare a fondo il territorio. Ottenendo, di conseguenza, grandi successi.

La stampa iniziò a chiamarlo “il segugio dei boss”, lo “specialista dei casi difficili“. Diventò un personaggio scomodo, pericoloso per gli ambienti di mafia, all’epoca non ancora ben delineati nella struttura. Per questo il 10 settembre del 1981 finì vittima di un attentato.

Il delitto del 10 settembre 1981

Erano da poco passate le 20.30 del 10 settembre. Vito Ievolella e la moglie, Iolanda, si trovavano a bordo di una Fiat 128 gialla parcheggiata in Piazza di Camporeale, a Palermo: stavano aspettando che la figlia, Lucia, terminasse le lezioni di scuola guida, per riportarla a casa. Chiacchieravano quando sei colpi di arma da fuoco li raggiunsero, all’improvviso, frantumando il vetro dell’auto e ferendo il maresciallo a morte.

La moglie si salvò perché lui gli fece da scudo, proteggendola con il suo corpo: l’ultimo atto d’amore di una vita spesa a battersi per il bene. Da appena un mese gli era stata revocata la scorta con cui era solito girare per motivi di sicurezza.

Per l’omicidio finirono in manette diverse persone: Masino Spadaro e Giuseppe Lucchese, il mandante (boss della Kalsa) e uno degli esecutori materiali del delitto, furono condannati all’ergastolo nel 2003. Ad incastrarli furono dei collaboratori di giustizia. A Ievolella, invece, fu riconosciuta la medaglia d’oro al valor civile perché

pur consapevole dei pericoli cui si esponeva, s’impegnava con infaticabile slancio e assoluta dedizione al dovere in prolungate e difficili indagini che portavano alla individuazione e all’arresto di numerosi e pericolosi aderenti ad organizzazioni mafiose. 

Arrivando a dare la sua vita per i suoi principi.

Il ricordo della figlia in occasione dell’anniversario

Quel 10 settembre non è mai finito. Penso che sia un’esperienza che quanti sono vittime di mafia, come me, possono confermare […]. Si tratta di un giorno che non finisce mai, che ha creato un vuoto nella tua vita per sempre immotivatamente, senza alcuna ragione plausibile,

aveva dichiarato ai microfoni de “Gli Stati generali”, in occasione del 41esimo anniversario della morte del padre, Lucia Ievolella, aggiungendo:

Non c’è un contesto che ti aiuta nella metabolizzazione della perdita, perché oggi gli anniversari si sono trasformati in passerelle e l’eccessivo protagonismo distoglie dai valori veri. L’elemento più grave, a mio giudizio, è che non abbiamo ereditato nulla e lo dimostra il fatto che oggi non abbiamo una classe politica, al di là degli schieramenti, in cui ci sia una vera leadership, con soggetti integri dal punto di vista morale, capaci di senso del dovere e di bene comune. Anche questo fa sì che quel 10 settembre non sia ancora finito.

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