Si è tolto la vita in carcere, dopo essere stato arrestato per l’omicidio del padre Umberto, Federico Gaibotti. Il 30enne, con problemi di tossicodipendenza, aveva già espresso la sua volontà di morire a una vicina di casa, dopo il delitto, ripetendolo nel corso dell’interrogatorio tenutosi davanti al gip per il fermo:

Non valgo niente, volevo suicidarmi.

Una tragedia nella tragedia, purtroppo già annunciata. E su cui molti, ora, si interrogano.

Morto suicida in carcere Federico Gaibotti: era accusato dell’omicidio del padre a Cavernago (Bergamo)

Il suo corpo è stato trovato senza vita nel bagno della cella che condivideva con un altro detenuto considerato “a rischio” (e quindi privato, da protocollo, di oggetti pericolosi): si sarebbe impiccato utilizzando una felpa, ieri pomeriggio. Un gesto veloce, di cui né il compagno né le guardie avrebbero fatto in tempo ad accorgersi. Un gesto che aveva detto di voler compiere diverse volte, dopo il delitto, prima alla vicina di casa intervenuta dopo aver sentito le grida d’aiuto del padre, poi al gip che ne aveva convalidato il fermo respingendo la richiesta del suo legale, l’avvocata Miriam Asperti, di collocarlo in una comunità terapeutica.

Diceva di non valere niente, di voler farla finita. Per questo, il 4 agosto scorso, prima di recarsi a casa del papà Umberto (per rubargli l’iPad che avrebbe dovuto usare come merce di scambio per sanare i suoi debiti di droga nei confronti della donna incinta che lo aveva accompagnato, a bordo di una Bmw), aveva acquistato un coltello in un negozio gestito da cinesi. Lo stesso poi usato per colpire il 64enne, quando quest’ultimo era rientrato, cogliendolo in flagranza, e aveva tentato di fermarlo.

All’arrivo dei soccorsi, chiamati da alcuni testimoni, per lui non c’era stato più niente da fare. Il giovane, invece, era stato tratto in arresto mentre, con i vestiti ancora sporchi di sangue, siedeva – in stato confusionale – nell’auto della donna con cui era arrivato che, all’arrivo dei carabinieri, avrebbe ingerito diverse dosi di droga.

Una tragedia annunciata

Nel convalidarne il fermo, il gip aveva riconosciuto nel carcere

l’unica misura in grado di assicurare il costante controllo della persona sottoposta alle indagini.

Persona

disturbata e priva di normali freni inibitori e degli istinti più bassi.

Secondo gli inquirenti, se lasciato in libertà, avrebbe potuto reiterare il delitto. Dalle strutture in cui finora era stato accolto per disintossicarsi era sempre fuggito, prima o poi: l’ultima volta lo scorso luglio, quando, dopo essere stato arrestato e processato per tentata violazione di domicilio a casa della madre, a Serate, lesioni e resistenza ai carabinieri intervenuti, era stato convinto a farsi ricoverare. Era già successo altre volte, senza successo.

Fino all’omicidio del padre, consumatosi al culmine dell’ennesima discussione. Quel giorno era visibilmente alterato dall’alcol e dalle droghe, secondo i testimoni. Presto in carcere avrebbe dovuto essere sottoposto a una perizia psichiatrica.

Troppi casi psichiatrici, poco personale

Voglio capire meglio che cosa è capitato, anche perché non succeda ancora,

ha dichiarato la garante dei detenuti Valentina Lanfranchi, che ieri nella struttura di via Gleno è rimasta a lungo, nel corso degli accertamenti.

La situazione è pesante, pesante, pesante. Non abbiamo celle da un detenuto, ce ne stanno 3,4,5 – ha detto -. Troppi i casi psichiatrici e poco personale.

Per fare chiarezza sulla morte del 30enne il pm di turno, Emanuele Marchisio, aprirà un apposito fascicolo d’inchiesta. Fondamentali saranno gli esiti dei rilievi della Scientifica e dell’autopsia. Oggi, alle ore 15, si terranno, intanto, i funerali del padre.

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