Le ferite fanno male. E non è una grande scoperta. Fin da bambini cadiamo e ci sbucciamo le ginocchia e rimangono le cicatrici a ricordarci che ci vuole prudenza quando corriamo. Da grandi ci capita di subire ferite più grandi, quelle che colpiscono l’anima. Di fronte a un taglio ci sono due ipotesi di comportamento: far finta di nulla o provare a trasformare la ferita in un insegnamento. “Non tutto il male viene per nuocere” dice un proverbio proprio per rassicurarci di fronte a una caduta, un fallimento, una sconfitta, un errore. Quel taglio può assumere la forma di un sorriso se da quell’episodio negativo avremo tratto un insegnamento.
C’è un’arte giapponese, il kintsugi, che ci spiega come una frattura può trasformare un oggetto rotto in pregiato. Lo spiega bene Stefano Carnazzi in un articolo sulla rivista LifeGate di cui è stato direttore responsabile dal 2008 al 2018, dopo aver collaborato con Quark, Focus e aver scritto quattro libri. “Rompendosi, – scrive – la ceramica prende nuova vita attraverso le linee di frattura all’oggetto, che diventa ancora più pregiato. Grazie alle sue cicatrici. L’arte di abbracciare il danno, di non vergognarsi delle ferite, è la delicata lezione simbolica suggerita dall’antica arte giapponese del kintsugi”.
Aggiustare i cocci rende una persona irripetibile
La tecnica consiste nel riunirne i frammenti dandogli un aspetto nuovo attraverso le cicatrici impreziosite da metallo prezioso. Così, “il pezzo riparato – spiega Carnazzi – diviene unico e irripetibile, per via della casualità con cui la ceramica si frantuma e delle irregolari, ramificate decorazioni che si formano e che vengono esaltate dal metallo”. Proprio le esperienze dolorose e la capacità di affrontarle rendono unica e irripetibile ogni persona.
Stefano Bisi