La storia di Piera Aiello, prima testimone di giustizia a diventare parlamentare, è intrinsecamente legata a quella di Paolo Borsellino, il magistrato antimafia ucciso dalla mafia il 19 luglio 1992, in quella strage di via d’Amelio che ha segnato un prima e un dopo nella storia della nostra Repubblica. Fu proprio al giudice Borsellino, infatti, che la Aiello decise di denunciare i fenomeni mafiosi di cui era a conoscenza.

Dopo una vita che non le apparteneva – era stata costretta a sposarsi a soli 18 anni – e dopo essere stata testimone, suo malgrado, di atrocità indicibili – tra cui l’assassinio del marito – la Aiello decise, insieme alla cognata Rita Atria di diventare testimone di giustizia, vivendo per ben 27 anni sotto protezione e tornando alla sua vera identità solo in occasione della candidatura alle elezioni politiche del 2018. Nella storia di Piera Aiello, però, Paolo Borsellino non fu solo il giudice che la aiutò a testimoniare, ma un vero punto di riferimento che, dopo più di trent’anni dalla sua scomparsa, rimane fermo e indelebile.

Piera Aiello: “Borsellino spiegava il valore della giustizia contro la cultura della vendetta”

Il ricordo che Piera Aiello fa del giudice Paolo Borsellino è prezioso e toccante. La testimonianza della ex parlamentare e testimone di giustizia assume un valore ancora più importante nel giorno in cui l’Italia ricorda l’anniversario della strage di via d’Amelio. In quel tragico 19 luglio 1992 Borsellino, insieme ai cinque membri della sua scorta, perse la vita per mano della mafia in un attentato che scosse le coscienze degli italiani, privati, a pochi mesi dalla morte del giudice Giovanni Falcone, del loro migliore esempio di legalità e giustizia.

La redazione di TAG24 ha raccolto la testimonianza di Piera Aiello, la cui storia di testimone di giustizia, proprio a fianco di Borsellino, racchiude il significato più profondo di cosa significhi lottare, a rischio della propria vita, contro la mafia che, ancora oggi, strozza il nostro Paese.

Piera Aiello, il 19 luglio 1992 ha segnato la storia d’Italia e, in modo particolare, anche la sua vita personale. Cosa ricorda di quel giorno?

“Anche oggi, quando sono arrivata in via D’Amelio, il mio primo pensiero è andato a quando appresi la notizia in Tv. Ancora oggi, anche a distanza di anni, quel ricordo è un colpo al cuore. Mi chiedo tuttora se quella strage si potesse evitare. Penso tanto, forse troppo, e ogni volta torno indietro negli anni”.

Qual è il suo ricordo più personale di Borsellino?

“Ricordo un uomo gentile, una spalla amica su cui abbiamo tanto pianto. Borsellino ci tese la mano nel primo anno da testimoni che fu durissimo perché noi fummo costrette ad abbandonare tutto, dalla casa ai nostri affetti. Io partì con una valigia e una bambina di tre anni. Di Borsellino ricordo la persona gentile, cordiale, amichevole. Per noi è stato un fratello maggiore e anche un padre: lui aveva figli, sapeva cosa stavamo attraversando in quel momento. Con la sua forza ci dava coraggio”.

E quale ricordo porta il Paese del giudice?

“Molte persone della società civile lo ricordano tutto l’anno. Alcuni politici invece si ricordano di chi è morto per amore di verità e giustizia solo nelle ricorrenze del 23 maggio e del 19 luglio.

A me ferisce vedere la politica che litiga sui temi di mafia e poi formalmente non fa nulla. Io sono stata parlamentare e, all’interno della commissione antimafia, presidente di un comitato che ha depositato tre relazioni, specialmente sugli imprenditori vittime di racket e usura bancaria. Abbiamo fatto un bel lavoro dove si evidenziano le maggiori criticità e suggeriscono importanti soluzioni per favorire la denuncia da parte delle vittime.

In realtà, però, nei fatti non si fa nulla. Ci sono tante aziende che denunciano e alla fine falliscono a causa di uno Stato poco attento. È una cosa gravissima. Ben venga andare alle commemorazioni e ricordare le persone che sono morte, ma è fondamentale vigilare tutto l’anno, applicando le leggi che ci sono e aiutando le persone che decidono di denunciare. Non possiamo chiedere a commercianti e imprenditori di denunciare il racket e poi lasciarli fallire. Pochissime aziende escono illese dalla denuncia, quando riescono il merito è solo della forza degli imprenditori.

Conosco aziende a Palermo che avevano più di 200 operai. Oggi ne hanno 20, e sopravvivono con l’aiuto delle persone. Anche perché chi denuncia poi non riesce a trovare un altro lavoro. Si è detto di dare contributi a fondo perduto per gli imprenditori. Ma questi non vogliono denaro regalato, vogliono la garanzia dello Stato e l’assistenza per non far fallire la loro azienda”.

In questi giorni il dibattito politico è stato dominato dalle affermazioni del Ministro Nordio, il quale ha sostenuto la necessità di rimodulare il reato di concorso esterno per associazione mafiosa. Che cosa ne pensa?

“Io non sono assolutamente d’accordo con la volontà di andare a toccare leggi che sono state fondamentali nella lotta alla mafia. Cambiarle significa favorire la criminalità organizzata. Pensiamo all’ergastolo ostativo: per trenta anni ha funzionato facendo sì che i mafiosi divenissero collaboratori di giustizia svelando cose importantissime. Non vedo il motivo di cambiare.

Io credo che l’Italia dovrebbe andare in Europa e sottolineare il perché abbiamo queste leggi e il perché si siano rivelate fondamentali. Anche perché l’Europa non è immune da fenomeni mafiosi, sappiamo bene come la criminalità organizzata – specie l’ndrangheta – sia andata a investire all’estero. Anziché levare noi la legge, dovremmo chiedere che gli altri Stati membri la adottassero. In questo senso noi dobbiamo essere esportatori di leggi fondamentali nel contrasto alla mafia.

Anche perché prima di cambiare le leggi occorre ben valutare. Non può arrivare il Nordio di turno e fare quello che vuole. Devo dire che le posizioni del ministro mi sorprendono, spesso non sembra neanche sia un magistrato. Io spero che in questa sua azione si metta di traverso la premier Meloni, che parla spesso di Borsellino. Io sicuramente non sono una donna di destra, ma giudico le persone per quello che fanno. La cosa migliore sarebbe che la presidente del Consiglio valutasse di mandare il ministro a casa”.

La premier Meloni ha difeso a spada tratta la nomina di Chiara Colosimo a presidente della commissione parlamentare antimafia, nonostante le opposizioni delle associazioni dei familiari delle vittime. Cosa ne pensa?

“Io non conosco Chiara Colosimo, l’ho solo sentita mezza volta al telefono. Per mia natura do sempre una chance alle persone di dimostrare ciò che valgono. Per questo non ho mai scritto niente sulla vicenda, perché voglio giudicare solo dopo aver visto le sue azioni. Spero soltanto che la commissione faccia le cose giuste e che lavori bene, perché di chiacchiere ne abbiamo viste fin troppe.

Preciso poi che anche nella scorsa legislatura la commissione si è formata tardissimo, non solo in questa. Il punto non è il tempo dell’insediamento, ma la qualità dell’intervento”.

La morte di Borsellino ci ricorda anche la morte cognata, come lei testimone di giustizia, che si tolse la vita dopo l’attentato a Paolo Borsellino. Ci racconta chi era Rita Atria?

“Rita era una piccola grande donna che, di sua spontanea volontà, decise di denunciare la mafia. Si è detto che fui io a convincerla, ma non è così. Lei voleva farlo soprattutto perché, all’inizio, era animata dalla sete di vendetta. Fu Borsellino che le spiegò il valore della giustizia contro quello della vendetta che porta solo sangue. Così lei iniziò un altro tipo di percorso, comprendendo dove la sua famiglia aveva sbagliato. Borsellino fu la sua spalla amica, ma non solo.

Voglio ricordare anche il ruolo di Alessandra Camassa e Morena Plazzi, due sostitute procuratrici a cui Rita fu affidata. Loro furono sempre presenti.

Quando morì Borsellino, il giudice Caponnetto disse in un’intervista che «era finito tutto». Rita provò la stessa cosa. Solo che a differenza di Caponnetto Rita era sola, dato che era stata rinnegata dalla sua famiglia. La sorella in primis la cacciò di casa, mentre ora gira le televisioni piangendo e sostenendo che Rita non si sia suicidata ma sia stata uccisa. Io spero che il caso sia riaperto, ma so per certo che la sorella l’aveva rinnegata. Anche sua madre la minacciava dicendole di ritrattare, altrimenti avrebbe fatto la fine del padre e del fratello.

Allora non c’erano neanche associazioni a supporto. Non c’era neanche l’associazione Rita Atria, che oggi ha scritto un libro pieno di falsità”.

La lapide di Rita Atria fu anche vandalizzata.

“Sì, dalla madre. Fui io a mettere una foto sulla tomba di Rita, dato che non c’era neanche uno straccio di foto. La madre prese la lapide a martellate, accusandomi di volerle togliere la potestà su Rita”.

Ha appreso della scomparsa di Andrea Purgatori, giornalista che si è molto impegnato nella lotta alla criminalità organizzata?

“Mi è dispiaciuto tantissimo perché era uno dei pochi giornalisti sopravvissuti che non si faceva imbavagliare”.

Serve un giornalismo coraggioso per sconfiggere la mafia?

“Ne serve tanto, perché tante dichiarazioni non passano perché fanno politicamente male a qualcuno. Io sono una persona per cui esistono il bianco e il nero, non le zone grigie.

In Italia abbiamo pochi giornalisti coraggiosi, ma spero che nelle nuove generazioni ne crescano tanti in grado di non farsi comprare per posti prestigiosi. Abbiamo visto poi quello che è successo a Giletti..”.

Che idea si è fatta del caso Giletti – Baiardo?

“La mia opinione è che Giletti fosse arrivato troppo vicino ad una verità. Certo è stato utilizzato da Baiardo, che secondo me è stato mandato in quella trasmissione al fine di veicolare un messaggio da parte dei Graviano.

Già per questo io avrei arrestato Baiardo che, come voce dei Graviano, ha fatto in modo di suscitare curiosità in Giletti che ha abboccato anche per fare audience. Anche perché mi scusi: ma quale persona che è stata in galera perché uomo dei Graviano si sogna di chiamare Giletti per comunicare l’ipotetico arresto di Matteo Messina Denaro che poco dopo si realizza?

Io spero venga fatta luce su questi fatti. Anche se apprezzo Giletti e il giornalismo d’assalto, credo che ci si debba rendere conto della necessità di valutare attentamente le proprie fonti. Se Baiardo avesse cercato me, ad esempio, mi sarei fatta due domande. Io penso che Baiardo volesse portare in Tv un messaggio dei Graviano, e c’è riuscito. Giletti nel frattempo stava andando troppo in fondo e ci voleva un modo per bloccarlo, e così è stato”.