Licenziato o non pagato se non si fa quello che dice il datore di lavoro? Si tratta di una vera e propria minaccia, che può sfociare perfino in un reato. Nel suo recente verdetto, la Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale: la condotta del datore di lavoro può costituire un reato di estorsione. Questo accade quando il datore di lavoro sfrutta la situazione del mercato del lavoro a suo vantaggio per prevalere sull’offerta e la domanda, costringendo i lavoratori a tollerare condizioni di retribuzione inferiori e inadeguate in relazione al lavoro effettivamente svolto. Il verdetto ha creato un precedente importante nel diritto del lavoro italiano.
Minacciato di essere licenziato o non pagato dal datore di lavoro: cosa dice la Corte di Cassazione
I ricorrenti in questione erano obbligati a lavorare oltre l’orario stabilito, a volte fino a venti ore al giorno, svolgendo compiti estranei alle loro mansioni. Sottoposti alle continue vessazioni del datore di lavoro, non veniva loro corrisposta la retribuzione per le ore effettivamente lavorate. Inoltre, la mancata retribuzione di tali condizioni di lavoro veniva presentata come un’alternativa alla prospettiva di lasciare il loro impiego.
Il giudice del merito, nell’esaminare il caso, aveva escluso l’esistenza di una minaccia, elemento essenziale per configurare il reato di estorsione. Secondo lui, il datore di lavoro aveva lasciato ai lavoratori la possibilità di scegliere se continuare il rapporto di lavoro o accettare le ingiuste condizioni lavorative.
La Corte di Cassazione ha però osservato che tale argomentazione trascurava un punto fondamentale: la minaccia stessa implica che la vittima del reato possa scegliere come comportarsi, ma con la consapevolezza che se decidesse diversamente da quanto imposto dal datore di lavoro, si verrebbe a creare la conseguenza di un male ingiusto. Proprio da questa caratteristica discende che l’estorsione è un reato che richiede la cooperazione della vittima attraverso la coercizione della sua volontà.
Le conseguenze del verdetto della Corte di Cassazione
Il verdetto della Corte di Cassazione ha stabilito che la Corte d’Appello ha commesso un errore di violazione della legge. Questo errore non può essere risolto con l’argomento che il lavoratore era libero di andare via. Questa affermazione trascura il fatto che il lavoratore viene messo di fronte all’alternativa di accettare le condizioni di lavoro imposte dal datore di lavoro o perdere il lavoro. Risulta irrilevante se tale evenienza si realizza per una decisione volontaria del lavoratore o su iniziativa del datore di lavoro.
La sentenza ha aggiunto che la condizione di lavoro presentata come alternativa alla perdita dell’impiego è ingiusta e illegittima, poiché prevede l’imposizione di turni di lavoro ininterrotti, ben oltre gli orari pattuiti, per svolgere attività estranee alle proprie mansioni, con una retribuzione completamente inadeguata rispetto alle ore effettivamente lavorate e alle attività svolte.
La posizione degli Ermellini
I giudici di merito avevano erroneamente escluso il reato sulla base dell’assenza di una “peculiare condizione di debolezza delle persone offese, per le peculiarità del contesto economico e, specificamente, dell’ambiente familiare di provenienza”. In sostanza, i giudici di merito ritenevano necessario un ulteriore requisito, ovvero la particolare condizione soggettiva della persona offesa, indicata come una non meglio specificata “peculiare condizione di debolezza”.
Tuttavia, la Suprema Corte ha precisato che ciò che rende rilevante penalmente la condotta in questione non sono le condizioni economiche, ambientali o personali del lavoratore, ma il fatto che il datore di lavoro costringa il lavoratore ad “accettare condizioni di lavoro ingiuste e deteriorate sotto la minaccia di interruzione del rapporto di lavoro, restando indifferente il contesto socio ambientale e familiare in cui tale coartazione viene attuata”.
In conclusione, la sentenza è stata annullata e rinviata al giudice civile competente per valore in grado di appello, con la conseguenza che restano fermi gli effetti penali della sentenza. Questa sentenza rappresenta un significativo passo avanti nella protezione dei diritti dei lavoratori, riaffermando che i datori di lavoro che impongono condizioni di lavoro ingiuste possono essere considerati colpevoli di estorsione.
Leggi anche: Licenziamento ritorsivo: cos’è e come può essere provato e contestato dal lavoratore
Licenziato o non pagato se non si fa quel che dice il datore di lavoro: la nuova sentenza della Cassazione
Una recente sentenza, la n. 629 dell’11 gennaio 2023, è tornata sulla questione, stavolta affrontando il caso di un datore di lavoro che aveva minacciato una dipendente di non pagarle lo stipendio se non avesse firmato un foglio in bianco, ritrattando alcune affermazioni fatte agli ispettori INAIL. Con quest’ultimo caso, la Cassazione ha ribadito quanto espresso nelle sentenze precedenti, equiparando l’atteggiamento del datore di lavoro a una vera e propria estorsione.