A più di un mese dalla scomparsa di papà Silvio, Marina Berlusconi mostra ancora tanta amarezza sulla giustizia e sul rapporto di quest’ultima con la politica. La presidente di Fininvest ha scritto una lunga lettera pubblicata da Il Giornale, nella quale ribadisce “il nuovo obiettivo” di intentare una “damnatio memoriae” nei confronti di suo padre.

Dopo di lui, il tema giustizia non doveva tornare nei binari della normalità? No, purtroppo non è così. Ha aspettato giusto un mese dalla sua scomparsa, la Procura di Firenze, per riprendere imperterrita la caccia a Berlusconi, con l’accusa più delirante, quella di mafiosità. Mentre nel Paese il conflitto tra magistratura e politica è più vivo e violento che mai.

Marina giudica questa situazione “sconfortante“, perché “sembra che ogni ipotesi di riforma diventi motivo di scontro frontale, a prescindere dai suoi contenuti”.

“Innanzitutto come figlia”, la primogenita dell’ex premier si fa portavoce della “persecuzione di cui mio padre è stato vittima”, che “non ha il pudore di fermarsi nemmeno davanti alla sua scomparsa”. Un indice di “molte delle patologie e delle aberrazioni da cui la nostra giustizia è afflitta”.

È una storia che vede una sia pur piccola parte della magistratura trasformarsi in casta intoccabile e soggetto politico, teso solo a infangare gli avversari, veri o presunti. È così che certi pubblici ministeri invertono totalmente il percorso che la ricerca della verità dovrebbe seguire. Partono da un teorema, per quanto strampalato, e a questo adattano la realtà dei fatti, anche stravolgendola, per dimostrare la fondatezza del teorema stesso.

Giustizia, Marina Berlusconi: “Tenaglia pm-giornalisti complici rovina la vita ai diretti interessati”

Il j’accuse di Marina Berlusconi si sposta poi sugli “organi di informazione amici“, responsabili di pubblicare “diligentemente” le carte dell’accusa, “anche quelle in teoria segrete”. Gli stessi media fanno “di tutto per presentarne le ipotesi come fossero verità assolute”.

L’avviso di garanzia serve così solo a garantire che l’indagato venga subito messo alla gogna: seguiranno le canoniche intercettazioni, anche le più lontane dal tema dell’inchiesta. Ma tutto serve a costruire la condanna mediatica, quella che sta loro davvero a cuore, prima ancora che il teorema dell’accusa venga vagliato da un giudice terzo. Un meccanismo diabolico, questa tenaglia pm-giornalisti complici, che rovina la vita ai diretti interessati ma anche condiziona, e nel caso di mio padre si è visto quanto, la vita democratica del Paese, avvelena il clima, calpesta i più sacri principi costituzionali.

Dopo “oltre vent’anni di inchieste” e “una mezza dozzina di indagini chiuse su richiesta degli stessi pubblici ministeri”, sottolinea Marina, ci sono “ancora pm e giornalisti che insistono nella tesi, assurda, illogica, molto più che infamante, secondo cui mio padre sarebbe il mandante delle stragi mafiose del 1993-94“.

È qualcosa di talmente enorme che fatico perfino a scriverlo. Ma davvero qualcuno può credere che Silvio Berlusconi abbia ordinato a Cosa Nostra di scatenare morte e distruzione per agevolare la sua discesa in campo del gennaio 1994? Ed è credibile, poi, che abbia costruito una delle principali imprese del Paese utilizzando capitali mafiosi?

“Un Paese in cui la giustizia non funziona non può funzionare”

Dopo “oltre un quarto di secolo”, ricorda l’imprenditrice, “in cui decine di pm hanno dedicato le loro giornate a mio padre, non è emerso nulla, nulla di nulla”. E allora l’Italia si conferma, a detta di Marina, “un Paese in cui la giustizia non funziona”, un Paese che di conseguenza “non può funzionare”.

Non m’illudo che, dopo tanti guasti, una riforma basti a restituirci alla piena civiltà giuridica. Ma penso, e spero, che chi ha davvero il senso dello Stato debba fare qualche passo importante. Non dobbiamo, non possiamo rassegnarci. Abbiamo diritto a una giustizia che, come si legge nelle aule di tribunale, sia “uguale per tutti”. Per tutti, senza che siano certe Procure a decidere chi sì e chi no.

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