Nel corso dell’ultima udienza del processo ad Alessia Pifferi, la 37enne accusata di omicidio volontario pluriaggravato per aver lasciato morire di stenti, abbandonandola da sola in casa, la figlia di 18 mesi, è salita sul banco dei testimoni la vicina di casa, Letizia. Davanti ai magistrati la donna ha raccontato gli attimi che hanno seguito il ritrovamento del corpo della piccola Diana, sostenendo che la madre si sia preoccupata solo di sé stessa e delle conseguenze delle sue azioni. Una versione dei fatti che combacia con quella di uno degli operatori del 118 intervenuti sul posto al momento della tragedia.

Processo ad Alessia Pifferi, in aula la testimonianza di una vicina di casa della 37enne accusata di aver ucciso la figlia

Non ha mai pianto Alessia (Pifferi, ndr) e mi ha chiesto: ‘Ora che mi succede? Mi arrestano?’

Sono queste le parole che una vicina di casa della 37enne ha rivelato nel corso dell’ultima udienza del processo che vede quest’ultima indagata per omicidio volontario pluriaggravato per aver lasciato morire di stenti la figlia di 18 mesi. Letizia, questo il nome della teste, ha riferito ai magistrati ciò che sarebbe successo negli attimi immediatamente successivi al ritrovamento del corpicino della piccola Diana, morta dopo essere stata abbandonata da sola in casa per sei giorni, mentre la madre frequentava il nuovo compagno a Bergamo.

Intorno alle ore 10 (del 20 luglio 2022, giorno della scoperta del cadavere, ndr), mi citofona agitata: ‘Venga, la bambina non respira più’ – ha riferito la donna -. Siamo salite e siamo entrate nella camera e ho visto la bambina. Era supina, con una magliettina che le copriva fino al pancino, aveva le manine e i piedini scuri, aveva gli occhi chiusi e le palpebre scure e Alessia mi ha chiesto: ‘È morta?’. lo non ho risposto, siamo rimaste li pochi secondi, poi l’ho fatta sedere sul divanetto in sala, spostando le valige (era appena rientrata) e mi ha raccontato che aveva lasciato la bimba con una baby sitter, ma al suo rientro non c’era.

Una menzogna, come quelle raccontate al compagno e alla nonna della bambina, a cui aveva riferito che era in buone mani. Stando a quanto ricostruito dagli inquirenti, l’avrebbe lasciata su un lettino da campeggio con un solo biberon di latte, non prima di averle somministrato dei tranquillanti per evitare che piangesse e allarmasse il vicinato. Una volta rientrata dalle vacanze l’aveva trovata senza vita.

Uno degli operatori del 118 intervenuti: “Più preoccupata per sé stessa”

La versione dei fatti della vicina di casa di Pifferi combacia con quella di uno degli operatori del 118 intervenuti nell’abitazione di Milano il giorno della scoperta del cadavere della bambina.

La signora Pifferi era sul divano, non ricordo di averla vista urlare o disperarsi. In quel momento pensava molto a sé stessa,

ha riferito l’uomo in aula, spiegando che la donna aveva raccontato a lui e ai suoi colleghi di essere partita il giovedì precedente, lasciando Diana in compagnia di una baby sitter di cui, rientrando, non aveva trovato alcuna traccia.

Ha detto di avere trovato la porta e le finestre aperte e nessuno presente nell’appartamento. Diceva che in settimana c’erano stati diversi contatti con la babysitter, anche videochiamate, ma sul suo telefono non abbiamo trovato nulla. A me aveva detto che si chiamava Giovanna, successivamente Jasmine.

Secondo gli esperti che l’hanno visitata in carcere, Pifferi sarebbe affetta da un grave ritardo mentale. Ecco perché, nonostante sia stata giudicata in grado di stare a processo, secondo la difesa non sarebbe stata capace di intendere e di volere, al momento dei fatti. Per l’accusa, invece, sì. E la madre e la sorella, costituitesi parti civili al processo, sperano che possa pagare per quanto ha commesso.