Violento episodio a Torino dove un uomo picchia il figlio della compagna e lo convince a non dire la verità. Un 26enne di origine marocchina è stato condannato a 10 anni di carcere per aver attentato alla vita di un bambino di 6 anni.
Le lunghe indagini messe in atto dalle forze dell’ordine sono sfociate nella sentenza pronunciata dal Gup Ersilia Palmieri del Tribunale di Torino. Gli accertamenti avevano evidenziato che il 26enne avesse più volte picchiato il bambino e che per poco non lo abbia addirittura ucciso con le percosse.
Ad avviare il procedimento circa la condotta del giovane è stato infatti proprio il più violento gesto. Il 14 Gennaio 2022 aveva portato il figlio al Pronto Soccorso dell’Ospedale Regina Margherita di Torino descrivendo le ferite subite come la conseguenza di una caduta dalle scale. Il bambino presentava diverse ecchimosi e accusava lancinanti fitte all’addome che hanno evidenziato gravissime lesioni all’intestino.
I medici hanno dovuto sottoporre il piccolo ad un intervento per la rimozione di 30 centimetri di intestino ormai irrimediabilmente danneggiato. I sanitari hanno ipotizzato sin da subito che si potesse trattare di un episodio di maltrattamento in famiglia.
Lo hanno quindi affiancato ad una psicologa in modo che potesse raccontare cosa gli fosse accaduto. Il bambino ha descritto che era stato il compagno della madre a procurargli quelle lesioni, colpendolo con energici pugni sulla pancia.
Torino picchia il figlio della compagna: bambino costretto a mentire per non far emergere la verità
Il 26enne avrebbe terrorizzato la compagna che era dunque a conoscenza della natura delle lesioni subite dal figlio. Sia la donna che il bambino avrebbero mentito ai medici poiché influenzate dall’uomo.
Le indagini si sono avvalse anche dell’impianto di sicurezza all’interno dell’ospedale. Proprio in quell’ambiente la madre avrebbe invitato ripetutamente il figlio a dichiarare di essere caduto dalle scale e che il 26enne non fosse coinvolto.
Nelle carte del gup si ha anche la trascrizione di una videochiamata tra il patrigno e la piccola vittima. Il 26enne avrebbe manipolato la decisione del bambino, facendo leva sul fatto che se l’accaduto fosse stato descritto alla polizia, gli agenti lo avrebbe tolto dall’affidamento della famiglia per portarlo ai servizi sociali.
Per comprare il suo silenzio, l’uomo avrebbe anche offerto giochi e divertimenti, oltre che di portarlo dalla nonna al mare.
Il bambino ormai sottomesso dal 26enne avrebbe obbedito e ai primi colloqui avrebbe confermato la versione fornita dai due adulti.
La psicologa però ha notato un comportamento anomalo per un bambino che avesse subito un incidente. Appariva distaccato dalla versione fornita. Questa intuizione ha portato a far emergere la verità. Durante la lettura di una fiaba il bambino ha dimostrato di aver paura dell’azione dell’adulto e di temere per la propria incolumità.
Ne sono nate così le indagini per accertare se si trattasse di un episodio di violenza domestica. I possibili maltrattamenti sono stati evidenziati anche dalle maestre.
Secondo il giudice ha agito per uccidere
Il seguente 25 Gennaio, il 26enne marocchino viene tratto in arresto per altri reati. A questo punto la madre del piccolo ha trovato il coraggio per descrivere la verità. La donna ha accusato il compagno di aver malmenato il figlio e che l’uomo avesse comportamenti violenti anche nei suoi confronti.
Il procedimento penale è proseguito fino alla condanna a dieci anni di carcere per le sue terribili azioni.
Il 26enne ha ammesso di aver colpito con pugni allo stomaco il bambino perché aveva vomitato ripetutamente nella sua automobile. Ha sostenuto che ha agito in questo modo perché pensava che il bambino avesse vomitato di proposito, per fargli un dispetto. Lo ha colpito con vigore senza capire che quei pugni potevano rivelarsi mortali.
Il giudice del Tribunale di Torino ha però respinto la posizione dell’avvocato difensore, Basilio Foti, che sosteneva che non vi fosse volontà di uccidere. Nella sentenza il giudice ha sottolineato:
“La grande energia impressa ai colpi e le parti vitali attinte del corpo indicano che il soggetto aveva previsto e voluto l’evento letale, come scopo principale dell’azione, ma alternativo rispetto all’evento meramente lesivo”.