«Il filosofo dei 5 Stelle De Masi ha gettato la maschera». Con queste parole ieri la presidente del Consiglio Meloni, nel corso delle comunicazioni al Parlamento alla vigilia del Consiglio europeo, ha attaccato il professore emerito di Sociologia del lavoro Domenico De Masi. L’accusa rivolta al sociologo, in particolare, muove da alcune dichiarazioni sulla guerra in Ucraina fatte dallo stesso un mese fa alla trasmissione Cinque minuti di Bruno Vespa. L’interpretazione della premier Meloni è tuttavia oggi respinta al mittente dallo stesso De Masi che chiarisce, in questa intervista esclusiva realizzata per TAG24, le sue posizioni.
De Masi: “Se fossi il filosofo dei 5 Stelle questi avrebbero fatto ben altro. Accuse vigliacche, mi interesso del Movimento così come mi interesso della sinistra»
La definizione di «filosofo dei 5 Stelle», non calza per Domenico De Masi, oggetto – suo malgrado – di un passaggio dell’intervento fatto dalla presidente Meloni durante le comunicazioni in Aula di ieri in vista del Consiglio europeo. Riprendendo delle affermazioni fatte dal sociologo in una trasmissione di Bruno Vespa, infatti, Meloni ha parlato pubblicamente di De Masi come il punto di riferimento intellettuale del Movimento 5 Stelle, soprattutto in relazione alla posizione del partito pentastellato sulla guerra in Ucraina.
Il diretto interessato, tuttavia, non è dello stesso avviso. A smentire le affermazioni della presidente Meloni è infatti proprio De Masi che, in questa intervista esclusiva per TAG24, respinge le accuse al mittente concedendo una lunga riflessione sullo stato della sinistra italiana, sulle politiche per il lavoro messe in campo dal Governo e, infine, sul futuro della nostra società alla luce dell’avvento dell’intelligenza artificiale.
Professor De Masi, si riconosce nella definizione di «filosofo dei 5 Stelle» fatta ieri della presidente del Consiglio Meloni?
“Assolutamente no. Intanto non sono un filosofo, ma un sociologo. C’è una differenza enorme tra queste due discipline, non si possono confondere tra loro. In secondo luogo, non sono assolutamente il filosofo dei 5 Stelle, ci mancherebbe. Credo che il Movimento si rifaccia a ben altri filosofi: io sono un sociologo che scrive di sociologia. Se il Movimento ha fatto proprie le mie idee, problemi loro. Ma non per questo sono il loro filosofo di riferimento. Se lo fossi, peraltro, penso che farebbero cose molto diverse da quelle attuali”.
Ritiene di essere stato strumentalizzato al fine di attaccare il Movimento?
“Io ho studiato i 5 Stelle, non sono stato uno di quegli intellettuali con la puzza sotto il naso che non li ha mai tenuti in considerazione. Ma non per questo, ripeto, sono il loro filosofo. Ci sono differenze profondissime tra il mio pensiero e il loro”.
Si è sorpreso di essere stato citato in questo modo dalla presidente Meloni?
“Direi che sono stato citato in modo molto aggressivo. E anche vigliacco, siccome non ero presente e non mi potevo difendere. Il rapporto non è bilanciato: lei è la Presidente del Consiglio, io un cittadino qualunque. Lei ha parlato di me alla Camera e al Senato, io non sono né deputato né senatore. Lei ha parlato di vigliaccheria, ma mi sembra la sua sia stata una vigliaccheria”.
La sua affermazione «meglio vivere sotto una dittatura che morire» riportata dalla presidente Meloni è stata strumentalizzata? Può chiarirci cosa intendeva?
“In quella occasione Bruno Vespa aveva parlato del morire per la patria come un qualcosa di positivo. Anche la Meloni ha fatto più volte affermazioni del genere. Io ho semplicemente detto che bisognerebbe chiedere ai morti se volevano o meno morire per la patria. Anche perché molti dei morti di questa guerra sono civili, non combattenti. Dunque non muoiono per eroismo. Inoltre ci sono milioni di persone che, fuggite dal conflitto, sono oramai sfollate in tutto il mondo. Semplicemente io non so cosa risponderebbero se chiedessimo loro se preferiscono ricevere armi o meno.
Noi diciamo sempre che è dolce e decoroso morire per la patria, citando il verso di Orazio. Ma questo lo deve decidere chi muore per la patria, non noi che mandiamo le armi ma restiamo in modo vigliacco a casa. Durante le guerre del Risorgimento in Italia venivano giovani da tutto il mondo per combattere con Garibaldi. Non mandavano armi, venivano in prima persona. Per un Paese ricco come il nostro è facile mandare armi e basta. Se si ama così profondamente la libertà, allora si vada a combattere”.
Crede dunque ci sia stata malafede nell’interpretazione delle sue parole?
“Io so che c’è sempre stata una differenza enorme nei confronti della guerra tra la destra e la sinistra. La prima è stata sempre guerrafondaia, la seconda sempre contro i conflitti, tranne che in alcune eccezioni”.
Parliamo di lavoro. Alcune settimane fa è partito, nel Regno Unito, il progetto pilota del think tank Autonomy per la sperimentazione del reddito universale di base. In Italia, invece, si è fortemente depotenziato il Reddito di cittadinanza. Cosa ne pensa?
“Il reddito di cittadinanza è diverso dal reddito universale di base. Diciamo però che è stato una prova per capire se la nostra società è matura rispetto a certi temi. Ebbene, si è dimostrato di no: c’è tanta strada da fare per capire quali saranno le situazioni lavorative dei prossimi decenni, soprattutto in virtù dell’impatto dell’intelligenza artificiale.
Andiamo infatti incontro a una situazione in cui, per produrre di più, il lavoro umano sarà sempre meno necessario. Beni e servizi saranno prodotti solo per un decimo dagli umani: il resto sarà affidato alle macchine. Dobbiamo chiederci dunque a chi apparterranno questi beni e come saranno distribuite le ricchezze. Non si potrà dire che ne godranno solo i produttori, dato che questi saranno prevalentemente robot. Allora le ricchezze saranno dei proprietari dei robot, che però saranno sempre meno. Prima i datori di lavoro avevano migliaia di lavoratori, in futuro avranno migliaia di robot. Ma chi comprerà i beni e i servizi prodotti se le persone non lavorano o lavorano poco?
Andiamo verso un mondo dove sarà necessario trovare nuove modalità di divisione del lavoro, della ricchezza, del potere, delle tutele. Si deve dunque riprogettare tutto alla luce degli avanzamenti dell’intelligenza artificiale”.
La classe politica italiana è pronta a farsi carico di questa lettura del futuro?
“Ma guardi come è finita con il reddito di cittadinanza, che è cosa davvero minima rispetto al reddito universale di base: non è stato difeso da nessuno, neanche i 5 Stelle”.
I 5 Stelle sostengono che, con l’abolizione del reddito di cittadinanza, il governo Meloni faccia la guerra ai poveri. Lei è d’accordo? Quale visione del mondo del lavoro ha questo esecutivo?
“Questo è molto interessante. La visione della sinistra è che la povertà può dipendere dall’individuo ma ancora di più dalla società che non crea posti di lavoro e non forma le persone. Per la destra, invece, la colpa è principalmente dell’individuo e non della società. Sono punti di vista opposti.
Io sono di sinistra e certo so che ci può essere pigrizia da parte di qualcuno. Ma cosa diciamo per tutte quelle persone che non trovano lavoro perché semplicemente questo non c’è? Prendiamo la questione dei laureati. In Germania, a tre anni dalla laurea, lavorano 92 laureati su 100. In Italia 51. È possibile fermarsi al dire che i giovani italiani sono pigri? Io credo di no. In Germania si lavora 1400 ore l’anno, da noi 1800. E così più persone lavorano. Qui in Italia il mercato è conciliato male, non è colpa dei singoli”.
Come si coniugano gli alti tassi di disoccupazione giovanile con la volontà del Governo di incentivare la natalità?
“I due binari non coincidono affatto. Se oggi non si trovano i posti di lavoro per milioni di persone anziane, stiamo a preoccuparci di chi lavorerà fra trenta anni? Anche se si iniziasse a fare più figli ora occorrerebbero comunque trent’anni. Dunque non si risolverebbe il problema.
Dall’altra parte, nessun Paese europeo fa più figli. Da noi il tasso di nascite è sicuramente inferiore rispetto ad altri Stati, ma comunque la situazione è questa: in Europa il numero di persone che nascono è inferiore al numero di persone che muoiono. Dovunque questo saldo negativo viene colmato dagli immigrati”.
Professor De Masi, lei è un uomo di sinistra. Pensa si arriverà mai a un’alleanza strutturale fra 5 Stelle e il Pd in grado di competere con il centrodestra?
“Noi sappiamo che giusto quattro anni fa, nel luglio del 2019, il Pd e i 5 Stelle facevano insieme il 43%. Ora, sommati, sono al 33%. In un momento può crescere uno, in un momento l’altro, ma la somma finale rimane disastrosa. Di fatto parliamo di voti scambiati dallo stesso bacino. Il problema è che non riescono a imitare la destra che, nonostante abbia tre anime, governa compatta.
Anche a sinistra ci sono tre anime, con il Pd fa presa sulla classe media e il M5S sul proletariato, mentre De Magistris porta avanti un discorso più radicale. Il problema è che queste tre sinistre non riescono a coordinarsi. Pensiamo alle elezioni regionali del Lazio, dove il conglomerato delle sinistre avrebbe potuto vincere se unito. L’accordo però non c’è stato – soprattutto per volontà dei 5 Stelle – e dunque si è persa una regione importante. In Lombardia invece si sono presentati insieme anche se non c’era nessuna speranza e infatti hanno perso.
C’è un problema di strategia delle sinistre, che potrebbero fare come fa il centrodestra, dove ogni partito cresce nel suo elettorato per poi unirsi alle elezioni. Ma non lo sanno fare. Io credo che alle prossime europee i Cinque stelle avranno una batosta enorme”.
Anche le recenti elezioni regionali in Molise sono state, per Pd e M5S, un fallimento.
“In Molise hanno scelto male il candidato. Credo che se avessero puntato su Domenico Iannacone sarebbe andata meglio. In ogni caso c’è confusione perché entrambi i partiti non sanno quale progetto di Italia offrire all’elettorato. Berlinguer spiegava molto chiaramente che Italia voleva. E infatti lo votavano”.
Il giorno della morte di Silvio Berlusconi lei si trovava in Brasile. Che Italia ha visto da oltreoceano?
“Visti dal Brasile sembravamo un Paese di pazzi, sono accadute cose inspiegabili. In quei giorni ho fatto un’intervista per Rede Globo, la televisione più importante del Brasile. Ebbene per me è stato difficile rispondere alle loro domande e spiegare loro il comportamento dei miei connazionali. Certamente capisco il dolore per la morte di una persona e il fatto ci siano state delle grandi esequie. Però che si faccia addirittura una celebrazione del personaggio chiudendo la Camera per sette giorni.. è stato semplicemente inspiegabile”.