A oltre 12 anni dal disastro nucleare di Fukushima, il destino delle acque contaminate dal materiale radioattive e ancora stoccate rimane avvolto nella polemica, mentre il governo giapponese ha rilanciato il suo obiettivo: sbarazzarsene. Gettandole nell’oceano.
Fukushima e la decisione che avvelena la politica (e il mare)
La scelta di Tokyo infatti sembrerebbe quello di un irreversibile sversamento delle acque radioattive nell’oceano. Secondo i media locali infatti si sarebbe arrivati all’ispezione finale per capire la situazione dei liquidi stipati in 1.000 serbatoi: il contenuto dovrebbe essere diluito e poi rilasciato attraverso un canale diretto in mare aperto, a circa un chilometro dalle coste. Il Giappone prima di procedere, riceverà un rapporto finale dall’AIEA, l’agenzia atomica delle Nazioni Unite (molto nota per il suo lavoro sulla centrale nucleare di Zaporizhzhia) sul rilascio di acque reflue trattate dalla centrale nucleare di Fukushima Daiichi. Il direttore dell’AIEA Rafael Grossi incontrerà infatti il premier nipponico Fumio Kishida proprio in loco il prossimo 4 luglio per presentare il rapporto definitivo dell’agenzia.
Il piano per lo smaltimento che non piace ai Paesi vicini
Nei mille serbatoi riempiti e accatastati sono presenti circa un milione di tonnellate di acque reflue che contengono trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno. La Tokyo Electric Power Company Holdings (TEPCO), che gestisce l’impianto, prevede di diluire le acque reflue con una grande quantità di acqua di mare per ridurre la concentrazione di trizio a meno di 1/40 di un livello standard nazionale, prima di rilasciarlo a circa un chilometro al largo. Secondo il presidente dell’autorità di regolamentazione nucleare Shinsuke Yamanaka, “dovremmo essere in grado di rilasciare una certificazione finale in circa una settimana”. Eppure l’idea di questo sversamento contraria quasi tutti gli Stati limitrofi al Giappone: la Cina ad esempio ha deciso di boicottare l’industria farmaceutica giapponese, mentre in Corea del Sud addirittura la popolazione ricorre al massiccio acquisto di alghe e di sale marino iodato, di cui la mancanza inizia a essere palese nei supermercati delle diverse città.