È “un altro caso Cucchi“, secondo i familiari, quello di Enrico Lombardo, il 42enne morto a Spadafora, in provincia di Messina, durante un fermo dei carabinieri. Per questo, supportati dalle associazioni Amnesty International e A Buon Diritto e dalla senatrice Ilaria Cucchi, sorella del ragazzo ucciso a Roma mentre era sottoposto a custodia cautelare, sono tornati a chiedere giustizia, nella speranza che le indagini riguardanti la sua morte non vengano archiviate, come è stato richiesto dal Gip che si è occupato del caso. La decisione sul ricorso è attesa per il prossimo 23 giugno.
Caso Enrico Lombardo, morto a Spadafora (Messina) durante un fermo: i familiari si oppongono alla richiesta di archiviazione delle indagini
L’inchiesta aperta alla Procura di Messina vede indagati tre sanitari e un carabiniere: quello che ha immobilizzato l’uomo quella notte, indagato per morte come conseguenza di altro delitto, mentre al medico e a due soccorritori del 118 viene contestato l’omicidio colposo,
spiega Amnesty International, che, insieme all’associazione A Buon Diritto – in prima linea sui temi della privazione della libertà e dei diritti – ha deciso di prendere le parti dei familiari di Enrico Lombardo, il 42enne morto durante un fermo dei carabieri a Spadafora, in provincia di Messina, nel 2019, presentando ricorso contro la richiesta di archiviazione delle indagini da parte della Procura. Si tratta della seconda volta.
L’obiettivo della famiglia – e di coloro che la appoggiano, tra cui anche la senatrice Ilaria Cucchi – è fare in modo che l’inchiesta prosegua. E che vengano condotti ulteriori accertamenti sulla morte del 42enne. Il suo caso, nelle scorse ore, è stato definito “un altro caso Cucchi”, perché ricorderebbe, nelle dinamiche, l’omicidio del giovane romano che, come dimostrato in Cassazione, nel 2009 ha coinvolto diversi militari dell’Arma, di cui due condannati a 12 anni di reclusione.
Sulla base degli atti giudiziari, Lombardo sarebbe morto la sera del 27 ottobre del 2019 dopo un intervento delle forze dell’ordine in casa dell’ex compagna. A chiamarle era stata lei, dopo che l’uomo le aveva bussato, mostrando di essere particolarmente nervoso. In un primo momento erano riusciti a farlo allontanare dall’abitazione, tranquillizzandolo. Chiamati una seconda volta dalla donna, gli agenti lo avevano tenuto immobilizzato a terra, con le manette, per venti minuti, non prima di averlo colpito con uno dei manganelli in dotazione.
Le motivazioni del ricorso dei familiari
Lombardo era morto, poco dopo. Accanto al suo corpo furono ritrovate copiose macchie di sangue. Ripercorrendola a posteriori, la scena della sua morte riporta alla mente quella a cui si è assistito in America con George Floyd, l’afroamericano assassinato da un agente nel Minnesota, il cui caso ha scatenato le proteste del movimento “Black Lives Matter”, riaccendendo il dibattito pubblico sull’abuso della forza da parte delle forze dell’ordine, in tutto il mondo.
Sul caso di Spadafora la Procura ha indagato e chiesto l’archiviazione. Ma per i familiari ci sono ancora dei punti da chiarire. Innanzitutto, se altri carabinieri oltre all’unico indagato abbiano preso parte al pestaggio, come dimostrerebbe il rinvenimento di una traccia ematica sul manganello in dotazione di un secondo agente; poi, l’intervento dei soccorsi. Stando a quanto emerge dagli atti delle indagini, il defibrillatore sarebbe stato usato con estremo ritardo. L’ipotesi è che Lombardo avrebbe potuto salvarsi, se l’entrata in azione fosse stata più celere.
La decisione della Corte di Cassazione è prevista per il prossimo 23 giugno. In quell’occasione, familiari, conoscenti e non della vittima si incontreranno per manifestare e chiedere di “riaprire il caso” ed avere “giustizia e libertà”.
Non è possibile che un cittadino sotto la custodia dello Stato muoia,
dicono. E chiedono a gran voce che la verità venga a galla.