Una eruzione dei Campi Flegrei è davvero possibile? A questa domanda hanno provato a rispondere alcuni ricercatori, che hanno analizzato i cambiamenti della crosta della caldera nel golfo di Pozzuoli. Secondo i risultati della ricerca, pubblicata sulla rivista Nature, la crosta della caldera risulterebbe indebolita. Secondo l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), tra i promotori dello studio, al momento i risultati “non hanno alcuna implicazione diretta su misure che riguardano la sicurezza della popolazione”.
Secondo gli studiosi, nel corso dei decenni la crosta della caldera flegrea sta progressivamente passando da una fase “elastica” a una “inelastica”. Sulla questione è intervenuto l’autore principale della ricerca, il professor Christopher Kilburn, docente di Vulcanologia presso l’University College London (UCL).
Il nostro nuovo studio conferma che i Campi Flegrei si stanno avvicinando alla rottura. Tuttavia, questo non significa che un’eruzione sia garantita. La rottura può aprire una crepa attraverso la crosta, ma il magma deve ancora essere spinto verso l’alto nel punto giusto perché si verifichi un’eruzione.
Eruzione Campi Flegrei, i segnali che potrebbero fare da campanello d’allarme
In via ipotetica, l’indebolimento nella crosta della caldera dei Campi Flegrei potrebbe provocare la fuoriuscita di fluidi a circa 3 chilometri di profondità. Tali sostanze potrebbero essere composte da magma e da gas di natura vulcanica. Al momento gli esperti sottolineano come non sia possibile escludere completamente un eventuale contributo magmatico. L’eventuale eruzione potrebbe essere preceduta da lievi segnali, come un ridotto sollevamento del suolo e meno terremoti nell’area flegrea.
A spiegare lo studio è intervenuto anche Stefano Carlino dell’INGV.
Nonostante il livello del suolo raggiunto oggi sia superiore di oltre 10 cm a quello raggiunto durante la crisi bradisismica del 1984, la deformazione inelastica sta avvenendo con un livello di sforzo inferiore rispetto al 1984. Questo risultato suggerisce che, nel corso degli episodi di sollevamento della caldera dei decenni passati si sono progressivamente prodotte modifiche dello stato fisico della crosta e che questi cambiamenti non possono essere trascurati nello studio della dinamica vulcanica in atto e nelle sue evoluzioni future.
Stefania Danesi, della Sezione di Bologna dell’Istituto, sottolinea come lo studio dimostri che gli episodi di sollevamento ai Campi Flegrei dal 1950 a oggi “devono essere considerati come fasi di un unico processo di lungo termine in cui la recente transizione da regime ‘elastico’ a ‘inelastico’ segna un passaggio rilevante”.
I ricercatori: “Necessità di analisi sui segnali registrati in superficie”
Torniamo alla questione iniziale: c’è da preoccuparsi? Gli autori della ricerca sottolineano la necessità di analisi “sempre più quantitative delle relazioni tra i segnali registrati in superficie dalle reti di monitoraggio e i processi che li determinano, indispensabili per fornire valutazioni più attendibili per la pericolosità vulcanica“.
Gli scenari possibili sono diversi, e gli esiti altrettanto: lo conferma Nicola Alessandro Pino, dell’Osservatorio Vesuviano dell’INGV.
I nostri risultati sono basati sull’elaborazione di un modello scientifico in cui i parametri osservati permettono di ipotizzare scenari di evoluzione della fratturazione delle rocce e quindi della sismicità. Nello scenario più critico, la persistenza del regime inelastico potrebbe portare alla rapida fratturazione degli strati crostali più superficiali, con precursori che potrebbero essere meno intensi di quanto generalmente attesi in caso di risalita di magma. Tuttavia, la riattivazione progressiva e diffusa di fratture potrebbe causare la depressurizzazione del sistema idrotermale, con arresto del sollevamento del suolo e, quindi, la ripresa della lenta subsidenza.