Nelle recenti competizioni amministrative, uno degli argomenti evocati è stato quello dell’appartenenza o meno dei candidati al contesto sociale e geografico in cui concorrevano. Questo è avvenuto, ad esempio, per la candidatura di Vittorio Sgarbi ad Arpino e per quella di Stefano Bandecchi a Terni. Si sono ascoltati argomenti simili: “Sgarbi non è di Arpino”, “viene da Ferrara”, “non abbiamo bisogno di politici di importazione”; oppure: “Bandecchi è livornese, manco lo capisce lu ternanu”.
Come dire: “Chi non è del posto, interno alla comunità, ai suoi codici culturali e alla sua storia, non ha strumenti conoscitivi che gli permetterebbero una corretta programmazione ed azione politico-amministrativa”.
Per motivi diversi, conosco bene le due realtà appena ricordate: la mia famiglia è di Arpino e qui ho vissuto e studiato i primi venti anni della mia vita; allo stesso tempo da quasi quattordici anni insegno all’Unicusano e conosco Stefano Bandecchi dai suoi esordi da imprenditore.
Sgarbi e Bandecchi, la questione dell’Identità
Il tema dell’identità e dell’appartenenza è assai complesso; non di rado ha prodotto contrasti e conflitti con esiti tragici.
Ma cos’è l’identità? Sembrerebbe un sinonimo derivato dall’aggettivo latino Idem, che significa “lo stesso”. Identitas, da idem , come dire che l’identità consiste nel coincidere con se stessi , con la propria natura, da tutelare ed assecondare. Questa ricostruzione, però, non ha alcun fondamento perché la parola identitas nella lingua latina non esiste: non la troviamo in Cicerone, né in Livio, Seneca o Catullo. È un neologismo che risale al IV secolo, nato in ambito teologico, nelle dispute sulla natura del Cristo/Figlio e dei suoi rapporti con Dio/Padre. Dispute che furono al centro del Concilio di Nicea in cui, su stimolo dello stesso imperatore Costantino, si affermò quella che è divenuta da allora la dottrina della chiesa :“il Figlio è della stessa sostanza del Padre”, hanno la stessa identitas.
La nozione di identità, in coerenza con le sue origini, è contraddistinta da un insieme di caratteri sacri e assoluti. In altri termini, quando parliamo dell’identità di individui e popoli attribuiamo loro le caratteristiche proprie alla divinità della tradizione monoteistica e abramitica. Dio ha una natura/identità inalterabile nel tempo e nello spazio, sempre uguale a se stessa, che non subisce alterazioni e che non ha altri metri di riferimento che se stessa. “Io sono colui che sono” risponde Jehova a Mosè che gli chiede come lo può rappresentare al suo popolo. Un’espressione che sta per: “Io sono la realtà e la vita, mi rappresento attraverso il fatto che esisto sopra ogni cosa e sono all’origine di ogni cosa”. Questa impostazione ha risvolti assai problematici perché segna una netta distinzione/contrapposizione fra quello che si è, o si pretende essere, e l’altro, lo straniero, il diverso, quello che in linguaggio filosofico potrebbe definirsi il “non io”, fra realtà e non realtà.
E va bene, si potrebbe commentare, il mondo è grande e c’è posto per tutti: per l’autoctono e lo straniero, per quelli come me e per i diversi da me, per l’io e per il non-io. Le cose non stanno propriamente così: non può darsi compatibilità fra l’essere e il non essere, fra l’io e il nulla. L’alterità, la diversità, la non conformità sono considerate come un disvalore una mancanza, una privazione, un’imperfezione. La questione dell’identità riconsiderata secondo la prospettiva politica conferma queste dicotomie, l’incompatibilità della diversità che la nozione di identità sembra sottointendere.
Le categorie del politico e il buon governante
In ambito politico, sembra riprodursi la dicotomia a cui rinviavo più sopra, secondo la formula di Carl Schmitt: “La categoria del politico è fondata sulla distinzione Amico-Nemico” e quest’ultima rinvia a quella fra concittadino e straniero. L’altro, il difforme, lo straniero, il “barbaro” hanno spesso una valenza di incompatibilità, se non di ostilità. Questa realtà è accentuata nella modernità delle ideologie totalizzanti ed incompatibili, come il comunismo e il fascismo. L’appartenenza civica, pertanto, è uno dei criteri di selezione della classe politica, ma lo status di cittadino non rinvia semplicemente ad un’appartenenza naturale, biologica. Ad Atene, la città che “inventò la democrazia” e la nozione di cittadinanza, per essere cittadini bisognava essere di padre e madre ateniesi, cioè entrambi cittadini. Non bastava nascere ad Atene: la cittadinanza si poteva acquisire o perdere per motivi politici. Demostene, nell’orazione Contro Neera, ricorda che la cittadinanza ateniese fu concessa a tutti i Platesi, gli unici greci schierati a Maratona a fianco degli opliti ateniesi, per la loro fedeltà ad Atene, ribadita nel corso del tempo. La cittadinanza, pertanto, ha una valenza prevalentemente politica.
Molte cariche nell’Atene democratica venivano attribuite per sorteggio, ma quelle che richiedevano competenze particolari, come le militari e le diplomatiche, erano assegnate per elezione. Pericle fu eletto per dieci volte stratega, comandante militare. Appartenenza alla comunità e competenza sono due criteri di selezione della classe dirigente. Soprattutto la competenza, considerando per un verso che lo status di cittadino già nell’antichità, ad esempio nell’impero romano con Caracalla, si estese a dismisura e che in epoca moderna è su base nazionale o addirittura multinazionale.
Il caso Sgarbi
Nelle recenti elezioni amministrative ad Arpino il monotono quadro politico cittadino è stato rivoluzionato dalla candidatura a sindaco di Vittorio Sgarbi, con la lista “Rinascimento per Arpino”. I candidati delle due liste alternative solo in via subordinata hanno fatto ricorso ad argomenti politici, cioè alla capacità di Sgarbi di realizzare un programma politico funzionale allo sviluppo di Arpino ed al benessere dei suoi abitanti. Programma, del resto, assai chiaro e lineare: valorizzare sul piano nazionale Arpino e le sue molte ricchezze in ambito artistico, storico e culturale, con le evidenti ricadute in ambito socio-economico. Invece di cercare di mostrare la velleità di un simile progetto o le incapacità del suo promotore di realizzarlo, si è preferito soffermarsi ed insistere sul fatto che Sgarbi non era di Arpino e conosceva superficialmente la località ed i suoi abitanti.
Ma chi è un buon politico, un amministratore affidabile? Quello che conosce per nome gli abitanti della città o chi è in grado di valorizzarla e promuovere il suo benessere? Arpino è una città con una storia illustre e plurimillenaria, in campi molteplici. Arpinati come Caio Mario e Vipsanio Agrippa hanno segnato la storia di Roma, quindi del Mondo. La storia della filosofia del diritto, dell’oratoria giudiziaria, della filosofia politica sarebbe stata più povera senza Cicerone, Arpinas. Il complesso delle mura pelasgiche dell’acropoli di Arpino è uno dei più estesi e meglio conservati al mondo, senza parlare dei reperti romani, in strade e monumenti come la Tomba di Saturno, o quelli di epoca medioevale, come la torre dei Piccolomini e il Castello Ladislao. O le chiese seicentesche e settecentesche, come San Vito e San Michele con opere del Cavalier d’Arpino, Giuseppe Cesari. Quale sarebbe l’identikit ideale di un sindaco in grado di valorizzare e promuovere una simile realtà? Un ingegnere meccanico o un avvocato penalista che non sanno distinguere una facciata romanica da una barocca, un pittore manierista da uno impressionista?
Forse la persona più adeguata sarebbe uno storico e un appassionato dell’arte con strumenti operativi, capace non solo di apprezzare questa realtà, ma pure di valorizzarla in ambito sociale e politico. Gli elementi che fanno la differenza sono essenzialmente due: la competenza e il coinvolgimento. Scegliere di essere arpinate e di condividere una storia ed un percorso è sicuramente più significativo del nascere per caso in un certo contesto. L’appartenenza è sempre una scelta, non è mai un accidente.
Il caso Bandecchi
Qualche anno fa il vulcanico proprietario dell’Unicusano acquistò la squadra di calcio del capoluogo umbro, la Ternana, che militava nella serie cadetta e versava in cattive acque sia sul piano economico che sportivo. Nessuno si adombrò per il fatto che Stefano Bandecchi non fosse umbro, ma livornese.
La vicenda del Bandecchi presidente della Ternana ha avuto esiti altalenanti, dalla serie B alla serie C, poi il ritorno in B, progetti e speranze con esiti deludenti nel campionato appena finito. La complessa relazione avuta con la squadra, gli allenatori, la città e i tifosi è servita però a stabilire un legame seppure non sempre tranquillo e cooperante con la gente di Terni, le istituzioni, i media della città e della regione, che gli hanno dato notorietà e audience e permesso di essere eletto sindaco, anche per una serie di contingenze e conflittualità locali abilmente sfruttate.
In campagna elettorale, uno degli argomenti polemici nei confronti di Bandecchi è stato il fatto che non era originario di Terni, che non conoscesse la storia della città, il vernacolo ternano e via dicendo. Anche se fin dall’inizio il proprietario della Ternana avesse costantemente ribadito di non avere nessuna competenza in tema di calcio, nessuno gli ha contestato la sua impreparazione in materia, ma gli è stato chiesto di investire nella società e promuoverne l’ascesa. Quando però si è candidato sindaco, gli è stato rimproverato di non conoscere il ternano, non di non avere competenze in ambito economico e gestionale.
Bandecchi sarà un bravo sindaco? Ai posteri l’ardua sentenza! Ma sicuramente l’esito del suo mandato non dipenderà dalla sua conoscenza del ternano e delle sagre locali.
Enrico Ferri, professore di Filosofia del diritto all’Unicusano.