In Italia, la discussione sull’introduzione di un salario minimo legale ha acquisito notevole risonanza. L’organizzazione rappresentativa del settore agricolo, Confagricoltura, si è espressa con forza contro tale progetto. Insieme alla Finlandia, alla Svezia, all’Austria e alla Danimarca, l’Italia è uno dei pochi paesi dell’Unione Europea che non hanno ancora adottato un salario minimo legale, una decisione che la differenzia dagli altri 21 Stati membri.
Confagricoltura sul salario minimo
La posizione di Confagricoltura è basata sulla convinzione che l’Italia abbia già un meccanismo efficace per gestire la questione del salario minimo: la contrattazione collettiva. Infatti, all’interno dei cosiddetti CCLN sono già previste retribuzioni minime da rispettare.
Questo strumento regola la stragrande maggioranza dei contratti di lavoro dipendente e, rispetto a quanto accade in altri paesi dell’UE, copre un ampio spettro di situazioni lavorative. Secondo Confagricoltura, l’introduzione di un salario minimo legale, che attualmente non è in agenda per il Governo Meloni, potrebbe essere rischiosa, soprattutto per i lavoratori, a causa delle possibili ripercussioni a catena impreviste e dei costi potenzialmente elevati per le aziende.
Le conseguenze per l’economia italiana
Confagricoltura evidenzia che l’introduzione di un salario minimo legale potrebbe minacciare il ruolo delle organizzazioni datoriali e sindacali. Infatti, alcune imprese potrebbero scegliere di applicare solo il minimo legale, anche per i lavoratori con posizioni superiori, riducendo la forza e l’efficacia della contrattazione collettiva. Inoltre, l’istituzione di un salario minimo potrebbe scoraggiare la stipula e il rinnovo dei contratti collettivi, con possibili ripercussioni negative sul trattamento economico complessivo dei lavoratori, che includono stipendi, bonus e benefici garantiti dai contratti collettivi.
La questione del salario minimo legale ha anche implicazioni più ampie per l’economia italiana. Come sottolinea Confagricoltura, l’imposizione di salari minimi più alti e di norme più rigide potrebbe addirittura contribuire ad aumentare il tasso di disoccupazione strutturale, stimolare la crescita del lavoro irregolare e incrementare il lavoro precario. Infine, l’aggiornamento periodico e automatico dei salari basato su indicatori ISTAT potrebbe alimentare una sorta di nuova “scala mobile”, con potenziali effetti inflazionistici difficilmente controllabili che potrebbero avere ripercussioni negative sull’intera economia.
No al salario minimo, sì al rafforzamento della contrattazione collettiva
Per Confagricoltura, l’unica soluzione per aumentare le soglie minime di retribuzione passa attraverso il rafforzamento della contrattazione collettiva. L’organizzazione sostiene che i contratti stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali più rappresentative dovrebbero essere estesi ai settori attualmente non coperti. Questo processo permetterebbe di prevenire fenomeni di discriminazione e dumping sociale, che potrebbero altrimenti crearsi in presenza di un salario minimo legale.
Il caso del salario minimo nelle società cooperative
Anche in assenza di una normativa nazionale che stabilisce un salario minimo, in Italia esistono situazioni in cui si può parlare di un salario minimo de facto. Un esempio emblematico è quello di una lavoratrice del settore turistico di Bologna, che ha citato in giudizio il suo datore di lavoro per non averle garantito una retribuzione adeguata. Il tribunale ha dato ragione alla lavoratrice, stabilendo un importante precedente che potrebbe fare da apripista a ulteriori cause legali.
In seguito all’analisi del proprio stipendio, un’impiegata ha rilevato un’ingiustizia salariale: riceveva un compenso lordo di 6,70 € all’ora, in netta contraddizione con il contratto nazionale, che prevedeva un pagamento orario di 8,24 €. Di fronte a tale sproporzione, la donna ha deciso di coinvolgere il suo sindacato, la Filcams Cgil, che ha immediatamente rilevato l’irregolarità nella retribuzione.
Di conseguenza, è stata avviata una vertenza contro sia l’hotel che la società cooperativa. Nonostante le pressioni, le istituzioni coinvolte non hanno risposto, e la società ha persino perso l’appalto, lasciando l’impiegata senza lavoro e in una situazione finanziaria precaria.
La sentenza
Di fronte a questa mancanza di risposta, gli avvocati dell’impiegata hanno intrapreso un’azione legale, presentando un decreto ingiuntivo contro la società cooperativa e richiedendo i salari arretrati accumulati durante il periodo di lavoro – una somma di oltre 2.000 euro per circa sei mesi. La questione è stata quindi portata davanti al tribunale di Bologna.
Nel corso del processo, il giudice ha dato ragione all’impiegata, citando il diritto a una retribuzione proporzionata come previsto dall’articolo 36 della Costituzione italiana. Il giudice ha stabilito che la proporzionalità deve essere determinata sulla base dei contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative.
Un aspetto chiave della sentenza è stato l’onere della prova imposto al datore di lavoro. Secondo il tribunale, il datore di lavoro è tenuto a dimostrare che il contratto applicato è quello ritenuto più rappresentativo.
A ogni modo, la recente sentenza ha di fatto dato ragione a Confagricoltura, nel momento in cui si parla di contrattazione collettiva che impone già un salario minimo e che, dunque, al massimo necessita un rafforzamento.