A 31 anni dalla Strage di Capaci, c’è una donna ancora capace di girare l’Italia in lungo e in largo per portare la sua testimonianza nelle scuole: si tratta di Tina Montinaro, moglie del capo scorta di Giovanni Falcone, Antonio.
La donna racconta e ricorda, che spesso la sua “scorta”, è quella automobile, la Quarto Savona Quindici, in cui è morto suo marito.
Tina Montinaro non ama sentirsi chiamare “la vedova” di Antonio Montinaro, perché a detta sua, lei con il marito parla tutti i giorni.
Nel lontano 23 maggio 1992, 500 chili di tritolo hanno portato via Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Antonio, poliziotto, aveva appena 29 anni, ed era sposato da 5 con Tina. Quando è morto ha lasciato due figli, Gaetano e Giovanni.
Da allora sono passati ben 31 anni, ma sua moglie Tina è rimasta la “memoria” vivente di quegli anni. Non manca in nessuna città per testimoniare ciò che è accaduto ai tempi, e portare le sue parole ai ragazzi nelle scuole.
Nel libro ‘Non ci avete fatto niente‘, scritto da lei, Tina Montinaro riporta quanto aveva detto il marito in un’intervista precedente al 23 maggio 1992:
«Io scorto un uomo ad altissimo rischio, un uomo che ha dato a molti la possibilità di credere nel futuro. Non lo farei se non 135 avessi la massima fiducia nei suoi confronti. Ho messo la mia vita a rischio, per lui, probabilmente perché è uno dei pochi in cui credo e che mi permette di stare bene con me stesso. Lo scorto perché sono sicuro che sia onesto. Se un personaggio decide di combattere un fenomeno come la Mafia e non ha l’aiuto della società, è normale che bisogna scortarlo. Ma se qualcuno decide di ammazzarlo, lo fa a prescindere da quanti uomini abbia di scorta. Forse peccherò di presunzione, ma penso che, attualmente, in un attentato fatto a “uomo”, noi siamo in grado di proteggerlo. Non potremmo fare lo stesso con un’autobomba, lì siamo persi, sconfitti».
Parole che suonano quasi come una profezia.
Alla domanda su chi fosse Antonio, Tina, che è sempre rimasta a Palermo in tutti questi anni, ha risposto così:
«Per noi adulti questa pagina buia della storia italiana e siciliana rappresenta una parte della nostra vita, un evento che ricordiamo e che ci ha segnato e cambiato. Non è lo stesso per le nuove generazioni. Per un ragazzo di vent’anni, la Strage di Capaci è una pagina di storia, un evento del passato, di cui non ha memoria viva. Per un bambino di dieci anni rappresenta un evento ancora più lontano, la cui conoscenza dipende dalla buona volontà e dall’impegno dei docenti e di noi adulti. Se vogliamo che questa memoria lasci un segno anche nei più giovani, non possiamo limitarci a organizzare manifestazioni di facciata alle quali ragazzi e bambini prendono parte così come potrebbero partecipare a una lezione di scuola. Serve il contributo attivo di tutti, serve una memoria che sia carica delle emozioni che possono trasmettere per primi coloro che hanno vissuto quei momenti».
«Io come tutti gli uomini ho paura, ma non sono vigliacco», diceva Antonio Montinaro, capo scorta di Falcone. La moglie ha spiegato cosa trova nella teca “monumento per la vita”, la Quarto Savona 15, esposta a Milano: «In questa macchina ci sono i resti di mio marito, Vito Schifani e Rocco Dicillo». Quarto Savona Quindici è il nome usato per la Fiat Croma blindata che è stata colpita il 23 maggio 1992, con circa 500 chili ti tritolo allo svincolo di Capaci, ed è saltata in aria insieme alla macchina di Giovanni Falcone e della moglie Francesca Morvillo.
Nel libro di Tina Montinaro ‘Non ci avete fatto niente‘, figura in modo dettagliato il racconto di quel maledetto giorno:
«Mentre Antonio mi chiamava da una cabina del telefono pubblica, Giovanni Brusca e gli altri mafiosi che avevano organizzato l’attentato erano già in azione. E loro, i telefoni cellulari, li avevano e li stavano utilizzando da quando l’autista di Falcone era partito dalla casa del giudice, in via Notarbartolo, per muoversi in direzione dell’aeroporto».