Sulla situazione orsi in Trentino Alto Adige, dopo la morte del giovane runner a Caldes, si è detto molto, spesso anche a sproposito. A ribadirlo, nel corso di un’intervista rilasciata a Tag24 dopo un periodo di silenzio rispettato come segno di lutto e di vicinanza alla famiglia della vittima, è lo zoologo Andrea Mustoni, coordinatore tecnico di “Life Ursus” e responsabile della comunicazione scientifica del Parco Naturale Adamello Brenta. Con lui abbiamo parlato di cosa è successo e di cosa potrebbe succedere.

Orsi in Trentino, intervista allo zoologo Andrea Mustoni

Il progetto “Life Ursus”

Dott. Mustoni, in queste settimane si sta parlando molto del progetto “Life Ursus”. Può spiegarci di cosa si tratta?

“Nel 1929 alcuni studiosi avevano cominciato a scrivere dell’importanza della realizzazione di un parco per la tutela dell’orso in Trentino. Questo parco è arrivato con una legge provinciale istitutiva, la numero 18 del 1988 ed è il Parco Naturale Adamello Brenta che, nel giro di poco ha deciso, attraverso i propri organi istituzionali (la Giunta esecutiva e il Comitato di gestione) di intervenire per tutelare l’orso, che a quel punto era da considerarsi biologicamente estinto.

Il Parco ha chiesto quindi il contributo dell’Unione Europea (dal punto di vista economico), della Provincia autonoma di Trento e dell’Istituto nazionale per la fauna selvatica (attualmente ISPRA) e, nel 1996, ha avuto accesso a dei fondi. Dopo una lunga fase preparatoria di tre anni, nel contesto della quale sono stati stretti degli accordi – formalmente siglati – con le province limitrofe alla parte occidentale del Trentino e vari protocolli di intesa con le associazioni ambientaliste, l’associazione cacciatori, gli allevatori e gli apicultori (tra gli altri), con il conseguente recepimento dei permessi da parte della Provincia e dei Ministeri coinvolti nell’iniziativa, nel 1999 è arrivato il primo animale dalla Slovenia.

A questo ne sono seguiti altri nove, fino al 2002. Nel 2004, a distanza di due anni dall’ultimo rilascio, i contributi dell’Unione Europea sono finiti e la Provincia autonoma di Trento ha sostituito il Parco come struttura responsabile per la gestione degli orsi in Trentino. Quindi il Parco ha smesso di lavorare in prima fila e i servizi forestali della Provincia hanno assorbito le attività gestionali a tutti gli effetti”.

Il progetto prevedeva, come spesso è stato detto, un numero massimo di animali da reinserire sul territorio?

“Sul tema sono state riportate diverse falsità. Penso che in una situazione come questa, dopo la disgrazia che la comunità trentina ha subìto con la morte di Andrea Papi, scrivere inesattezze sia una cosa molto triste. Ci vorrebbe più ordine, anche solo per dare dignità a quello che è accaduto nel recente passato. Detto questo, il progetto, così come da studio di fattibilità realizzato dall’ISPRA nel 1998, il documento sulla base del quale sono stati richiesti tutti i permessi, non prevedeva un numero massimo di orsi.

Viceversa, prevedeva un numero minimo, legato al concetto di “minima popolazione vitale”, ovvero di popolazione di animali selvatici in grado di sostenersi senza ulteriori interventi da parte dell’uomo, intesi come nuove liberazioni. Inoltre, lo sviluppo numerico della popolazione non è stato abnorme o imprevisto, come ho letto in alcune occasioni, ma in linea con quanto era nelle previsioni, come altri fenomeni, tra cui i danni o le aggressioni nei confronti dell’uomo. L’evento che è accaduto a Caldes era prevedibile”.

Sul numero degli orsi in Trentino e le attività gestionali

Non c’è, quindi, un numero ideale di orsi?

“Ci sono, se vogliamo, due tipi di densità potenziali possibili degli orsi sul territorio: una densità di carattere ecologico, che fa riferimento al numero degli orsi che possono rimanere in Trentino o sulle Alpi considerando l’ecosistema presente (boschi, risorse naturali, ecc.) e una densità che tiene conto della presenza dell’uomo, quella che alcuni specialisti definiscono “habitat politico”.

Se si fa riferimento alla prima, gli ambienti naturali del Trentino sono ancora talmente idonei alla presenza dell’orso, che potrebbero essercene anche di più. Per la seconda ci si deve chiedere quanti orsi possono restare di fianco alla popolazione di esseri umani che frequenta il Trentino. Si tratta di una domanda estremamente difficile, legata anche all’attività di comunicazione. Più si comunica la presenza dell’orso e come si può far fronte a tutte le problematiche ad essa connesse, più orsi sono tollerati. È un tema di estrema delicatezza in questo momento, perché l’attitudine sociale nei confronti di questa specie è pessima”.

E queste attività di comunicazione ci sono state? Com’è stata la gestione del progetto dopo il 2004?

Direi di no. Bisogna parlare di dati di fatto. La Giunta della Provincia autonoma di Trento nel 2002 aveva deciso, con apposita delibera, di realizzare, tra le altre cose, un piano per la comunicazione dell’orso in Trentino, sapendo che alcuni studi a livello internazionale (soprattutto nord-americani) confermano che più comunicazione si fa e meno aggressioni ci sono. Il rischio zero non esiste, ma più si comunica, più si abbassa la possibilità che un orso ferisca una persona.

Il piano previsto dalla Giunta nel 2002 è stato scritto solo nel 2016, quattordici anni dopo. È stato approvato, sempre a livello provinciale, ma ad oggi non è ancora stato messo in campo. Quindi evidentemente qualcosa di tutto quello che doveva essere fatto non è stato fatto. Non vuol dire che non siano state realizzate attività di comunicazione – sia il nostro Parco, sia la Provincia, sia alcune associazioni hanno fatto comunicazione in materia -, ma sicuramente non nel contesto di un piano organizzato che avrebbe dovuto affrontare il tema in modo più ampio e coordinato rispetto alle potenzialità del territorio.

Abbattimento e prospettive future

Per quanto riguarda gli orsi “problematici”? Come si dovrebbe intervenire?

“Io e il Parco, fin dal 1998, quando il progetto era ancora sotto la nostra responsabilità, siamo sempre stati e siamo ancora della stessa idea, cioè che gli esemplari problematici vadano abbattuti. Bisogna mettersi una mano sul cuore, con grande coscienza, perché si tratta di animali – importanti anche dal punto di vista legale -, però dovrebbero essere abbattuti.

All’inizio avrei detto anche abbattuti e sostituiti con orsi provenienti dalla Slovenia, quando la consistenza della popolazione era bassa. Poi la situazione si è andata a complicare in modo notevole. Si è creato un bipolarismo sociale, per cui ci sono delle persone che pensano che gli orsi siano dei peluche intoccabili e delle persone che pensano che siano degli animali terribili, che aspettano dietro l’albero chiunque passi per ucciderlo. Evidentemente non sono né l’una né l’altra cosa, sono degli animali selvatici e proprio su questo la comunicazione dovrebbe agire”.

Quali sono le prospettive future?

“Io penso che il futuro debba essere caratterizzato prima di tutto da un’attività di comunicazione laica (non ideologica), corretta, il più possibile tecnica e legata alla realtà gestionale. Non dev’essere più il tempo dei proclami o delle soluzioni facili da dire ma difficili da realizzare sul campo. Mi riferisco, ad esempio, a quella – avanzata da alcuni – per la cattura di molti esemplari e il loro trasporto da qualche altra parte. Magari sarò smentito dai fatti, però penso che la cosa sia poco realizzabile, sotto più punti di vista. La gente che vive in Trentino e gli ospiti della Regione dovrebbe avere il diritto di sapere quello che sta accadendo, che è accaduto e che potrebbe accadere, sulla base di un’assoluta trasparenza e veridicità delle informazioni che arrivano.

Detto questo, bisognerebbe insistere e continuare con l’attività di prevenzione dei danni, delle situazioni negative, per cercare di mettersi meno spesso possibile nelle condizioni di dover decidere se un orso va rimosso dal territorio oppure lasciato in vita libera. È chiaro che gli orsi hanno, all’interno delle loro popolazioni, un certo numero di individui problematici, è normale. Ma questo numero è strettamente legato anche alle attività dell’uomo, in termini di prevenzione e di reazioni successive. La situazione rimane molto complessa, la ricetta perfetta non c’è, nessuno ha la soluzione in tasca. Penso che ci si debba solo rimboccare le maniche, con onestà, e cercare delle soluzioni applicabili in concreto sul territorio”.