Il tema del calo demografico italiano, cui contribuiscono fortemente i bassi tassi di natalità del Paese, è in questi giorni al centro del dibattito politico. Il Governo sta infatti studiando un piano di diversificazione delle tasse per favorire le coppie con figli e incentivare le nascite.

Il calo demografico dell’Italia: l’opinione della demografa Elena Ambrosetti

Quando è iniziato il calo demografico italiano? E a cosa sono imputabili i bassissimi tassi di natalità che interessano il nostro Paese oramai da anni? La redazione di TAG24 ha rivolto queste domande alla professoressa associata Elena Ambrosetti, docente di Demografia presso l’Università La Sapienza di Roma.

Professoressa Ambrosetti, secondo l’Istat la popolazione italiana, dai 59.2 milioni di abitanti del 2021, decrescerà fino al 57.9 milioni nel 2050. Può spiegarci le ragioni di questo fenomeno e quando è iniziato questo trend negativo?

Dal punto di vista dalla crescita della popolazione il trend negativo è iniziato nel 2014. In quell’anno la popolazione ha raggiunto il suo massimo storico, superando i 60 milioni. Questa crescita si era resa possibile grazie all’apporto della componente migratoria, che dagli anni 2000 ha consentito di controbilanciare il saldo negativo tra nascite e decessi. Dal 2014, invece, il saldo migratorio si è abbassato notevolmente. Una volta superato il picco, dunque, dal 2016 la popolazione ha iniziato a diminuire a causa di una differenza tra nascite e morti più elevata rispetto a quella tra emigrati e immigrati“.

Nel 2022 l’Italia ha registrato un nuovo record negativo di nascite. Per quali ragioni i tassi di natalità continuano a diminuire?

“Il record delle nascite negative è stato già raggiunto, in realtà, nel 1995. In quell’anno si è segnato infatti un picco negativo di figli per donna, sceso al di sotto della media dell’1,2. Il fatto che oggi in Italia si sia arrivati a questo basso numero di nascite non è dunque qualcosa di nuovo. In demografia si parla di dato atteso: l’Italia è infatti in una situazione in cui sono poche le donne in età riproduttiva. Mi spiego meglio: dal punto di vista numerico, le generazioni di donne di età compresa tra i 15 e i 49 anni tenderanno a diminuire sempre di più. Specialmente quelle in età riproduttiva giovane che vanno dai 15 ai 30 anni. Questo significa che, anche a fronte di tassi di fecondità costante, il numero dei figli sarà destinato a decrescere perché saranno sempre meno le mamme.”

Dunque come possiamo interpretare i dati dell’Istat? Il calo demografico sarà dovuto all’impossibilità, da parte del saldo migratorio, di bilanciare i bassi tassi di natalità?

Innanzitutto consideriamo che 57 milioni di abitanti non sono comunque pochi. Al momento dell’Unità d’Italia, nel 1861, la popolazione si attestava a 20 milioni di persone. Se stiamo ai numeri, un calo di tre milioni non è così drammatico. Il problema non è il numero di abitanti, ma la composizione della popolazione e la struttura per età. Come dicevo, se ci sono meno persone in età riproduttiva ci saranno logicamente meno nascite. Nel contempo, ci saranno sempre più anziani”.

Crede che dunque si stia facendo allarmismo sulla situazione demografica italiana?

Questo allarmismo ritorna di anno in anno, non è un qualcosa di nuovo. Si ragiona in questi termini perché non si guarda al lungo periodo. Se avessimo adottato una visione di ampio respiro avremmo dovuto iniziare a mettere in campo azioni più decise già dal 1995.

Io credo che l’allarmismo non si debba avere sul numero di figli per donna, non si deve cercare un ideale. Il problema è che le coppie non riescono ad avere il numero di figli che desidererebbero. Noi sappiamo che in Italia la media è meno di due figli per coppia. Se guardiamo però a tutte le indagini che chiedono a donne e uomini quanti figli vorrebbero avere, vediamo che la risposta più frequente è due. Questo significa che noi non riusciamo, già da tempo, ad attuare politiche di sostegno verso le madri lavoratrici per consentire loro di avere quanti figli desiderano. In Italia molto spesso le donne non solo non lavorano, ma subiscono anche pressioni sul posto di lavoro per eventuali gravidanze. Ecco perché occorrerebbe lavorare di più sulle politiche di conciliazione della vita lavorativa con quella familiare”.

In Italia si è mai lavorato in questa direzione?

C’è stato un intervento legislativo molto forte, il Family Act nel 2020, in cui si prevedevano tutta una serie di interventi: conciliazione vita-lavoro, aumento dell’impiego femminile, sostegno ai giovani. Quest’ultimi, in particolare, hanno sempre più tardi l’opportunità di crearsi una vita autonoma e spesso, quando vogliono avere figli, incontrano poi problemi di fertilità. Ecco perché servono politiche di lungo termine che lavorino sull’empowerment femminile e sull’uguaglianza di genere. Garantire i congedi parentali e di paternità, assicurare l’equa ripartizione delle responsabilità familiari: questa è la direzione che dovrebbe essere assunta. Le sole politiche tipo bonus bebé hanno impatti sulla fecondità in media bassi. Occorrerebbero poi interventi di lungo termine: basti pensare al caso della Francia, che dal 1913 lavora sull’incentivazione della natalità”.

Occorrerebbero dunque politiche meno attente ai numeri e più al quadro generale?

Sì, esattamente. I cambiamenti demografici sono di lungo periodo, non si verificano dall’oggi al domani. In Cina sono passati da 18 milioni di nascite nel 2011 a 11.5 milioni nel 2017. Il numero di nascite in Italia si è abbassato da 400mila a poco meno. Questo per dire come in alcune aree del mondo il cambiamento sia stato ancora più repentino: serve riproporzionare e capire che interventi una tantum non servono. Si deve lavorare invece sulle politiche sociali con interventi strutturali.

In Italia noi sappiamo bene come, dagli anni ’60, si sia favorita l’assistenza pensionistica. Non dico che sia sbagliato, ma semplicemente che qualcuno ci ha perso. Io sono fiduciosa per il futuro e su quello che potrà essere fatto per i giovani. Ma ci vuole tempo: in Francia lavorano su questi temi da più di 100 anni e l’idea di avere un figlio è culturale.

Non ricordo quale ministro aveva detto che bisognava far figli in giovane età. I ragazzi si ribellarono, rinfacciando la mancanza di possibilità. Avevano ragione entrambi: i giovani devono avere la possibilità di uscire da casa, invece il carico rimane ancora sui genitori che diventano il welfare delle nuove generazioni. E non sempre tutte le famiglie hanno le stesse possibilità.

In che direzione vanno le agevolazioni al vaglio del Governo?

Questa misura poteva funzionare in Francia nel 1913, dove defiscalizzarono chi aveva più di tre figli. Adesso non siamo più a questo tipo di situazione. Se una donna non riesce ad avere un secondo figlio perché non si può assentare dal lavoro o rischia di perderlo, come fa? Occorre agire su queste dinamiche. Senza aiuti si comprende perché le coppie non facciano i figli.

La defiscalizzazione può essere uno degli strumenti, ma una misura da sola non può essere efficace. I primi interventi, secondo il mio punto di vista, dovrebbero garantire la partecipazione di giovani e donne alla vita della società, permettendo loro di realizzarsi dal punto di vista personale e lavorativo. Sotto questo punto di vista, però, c’è ancora tanto lavoro da fare.