La Procura generale di Perugia ha deciso di impugnare in Cassazione la sentenza con cui il 9 giugno scorso la Corte d’Appello ha assolto i cinque poliziotti accusati di sequestro di persona in relazione all’espulsione di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, e di sua figlia, prelevate con la forza nel corso di una perquisizione durante la quale gli agenti avrebbero dovuto accertarsi della presenza dell’uomo, ricercato a livello internazionale. I fatti risalgono al 29 maggio 2013. Per le operazioni furono condannati in primo grado cinque persone, ma la Corte d’Appello ha poi deciso di ribaltare la sentenza, assolvendoli. Ora, a quasi dieci anni dall’apertura delle indagini, il caso potrebbe riaprirsi.

Caso Shalabayeva: la condanna in primo grado e le assoluzioni in Appello

Sembrava essersi chiuso con l’assoluzione da parte della Corte d’Appello di tutti gli imputati, lo scorso giugno, il caso riguardante il sequestro di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukthar Ablyazov e di sua figlia, prelevate con la forza nella loro casa di Casalpalocco, a Roma, imbarcate su un aereo ed espulse dall’Italia il 29 maggio del 2013 con l’accusa di “possesso di documento falso”. Il caso, invece, sarebbe vicino ad una nuova riapertura. I poliziotti che portarono avanti l’operazione – che si erano recati nell’abitazione per cercare il dissidente, verso cui era stato emesso un mandato di cattura internazionale – furono condannati in primo grado per sequestro di persona e falso ideologico.

L’espulsione, infatti, fu giudicata immotivata. Ma il caso risultò fin da subito particolarmente intricato, tanto da provocare le dimissioni dell’allora capo di gabinetto del ministero dell’Interno, Giuseppe Procaccini, e attirando attorno a sé le più svariate congetture. Soprattutto dopo il ribaltamento della sentenza di primo grado da parte della Corte d’Appello che, nel giugno 2022, ha assolto i cinque imputati – tra i quali Renato Cortese e Maurizio Improta, rispettivamente ex capo della squadra mobile della polizia di Roma ed ex dirigente dell’ufficio immigrazione -, “perché il fatto non sussiste”. Secondo i giudici, il rimpatrio fu motivato dalle scelte della donna, “sempre condizionate dalla preoccupazione di non danneggiare gli interessi del marito, a partire da come ella si relazionò all’atto della prima perquisizione”.

La Procura generale di Perugia ha ora impugnato la sentenza in Cassazione

La Procura generale di Perugia avrebbe ora deciso di impugnare in Cassazione la sentenza della Corte d’Appello, in quanto quest’ultima “appare viziata per aver assolto gli imputati, senza procedere al riascolto di testimoni di accusa, ritenuti tutti inattendibili”. A renderlo noto è stata la stessa Procura, guidata da Sergio Sottani, attraverso un comunicato ufficiale. La Corte d’Appello, quindi, sarebbe “venuta meno all’obbligo di fornire una motivazione rafforzata, a sostegno della sua decisione assolutoria”. Obbligo che “non può certo ritenersi soddisfatto con il ricorso reiterato, così come fatto nella sentenza della Corte d’Appello, a domande retoriche, non sorrette dal rigoroso riscontro con le risultanze processuali”.

Sempre secondo la Procura generale, poi, il giudice di secondo grado,

con la sua lunga ed articolata motivazione demolisce la sentenza di primo grado, con l’uso, a volte, di espressioni che vorrebbero forse essere ironiche ma che rischiano di apparire inutilmente sarcastiche ed in alcuni casi possono essere percepite come manifestazioni di dileggio nei confronti dell’accusa e del giudizio di primo grado, ma non fornisce plausibili letture alternative ai tanti, troppi abusi consumati ai danni Alma Shalabayeva e della figlia minorenne. Abusi reiterati – specifica la nota -, che nella sentenza di appello vengono qualificati al massimo come violazione di prassi, ma che sul piano oggettivo e soggettivo integrano, a parere di questa Procura generale, il delitto di sequestro di persona contestato ai cinque imputati, nei cui confronti è stato presentato ricorso per Cassazione.