È la mattina del 17 maggio 1973 quando, nel corso di un attentato alla sede della Questura di Milano, 4 persone perdono la vita e 52 rimangono ferite. L’episodio, tra i più sanguinari del periodo, è avvolto fin da subito dal mistero. A quasi cinquant’anni dai fatti, ricostruiamo quanto accaduto.

Attentato alla Questura di Milano 1973: la ricostruzione dei fatti

17 maggio 1973. Attorno alle 11 di mattina, un uomo percorre a piedi il tratto di strada che da piazza Duomo conduce in via Fatebenefratelli, sede della Questura di Milano, dove è in corso la commemorazione di Luigi Calabresi, il dirigente dell’Ufficio politico della Questura ucciso a colpi di pistola mentre si recava a lavoro un anno prima perché ritenuto responsabile della morte di Giuseppe Pinelli – indagato per la strage di Piazza Fontana -, morto dopo essere caduto da una finestra del quarto piano della Questura e, secondo molti, defenestrato. Alle celebrazioni presiede anche il ministro dell’Interno, Mariano Rumor. È lui che si vuole colpire.

L’uomo che arriva in Questura ha con sé una bomba a mano e la fa esplodere tra la folla. Nell’impatto, violentissimo, muoiono 4 persone: Felicia Bartolozzi, 60 anni; Gabriella Bortolon, 23 anni; Federico Masarin, 30 anni; Giuseppe Panzino, 63 anni. 52 rimangono ferite. Il responsabile viene immediatamente individuato. Nel primo rapporto giudiziario sulla strage si legge, infatti:

La Forza pubblica in servizio sul posto ha subito tratto in arresto l’attentatore, il quale, dopo essere stato sottratto ad un tentativo di linciaggio da parte dei numerosi presenti, è stato portato negli uffici della Questura. Qui è stato trovato in possesso, tra l’altro, di un passaporto intestato a tale Magri Massimo, nato a Bergamo il 30.7.1942, che lo stesso attentatore ha subito indicato come falso. Egli ha quindi dichiarato oralmente di chiamarsi Bertoli Gianfranco, in oggetto indicato, e di essere arrivato a Milano la sera precedente proveniente da Haifa, via Marsiglia.

Chi è Gianfranco Bertoli

A finire in manette è Gianfranco Bertoli. Nato a Venezia nel 1933 da una famiglia di origini umili, fin da subito si mostra un ribelle: ha solo 16 anni quando, recandosi a scuola, una mattina porta con sé una pistola, facendo esplodere un colpo ad un compagno di classe. Dopo essere stato espulso da diversi istituti, si allontana dalla famiglia e inizia a girovagare, sostenendosi con lavoretti e piccoli crimini. Ben presto si abbandona all’alcol. Finisce in carcere, più volte. Negli anni Settanta, finito in un kibbutz, una tipica comunità israeliana, conosce diversi anarchici.

Non è un caso che la prima pista seguita dagli inquirenti sia quella anarchica: del resto, una volta arrestato, Bertoli sostiene di aver agito da solo per vendicare la morte di Pinelli. A chi indaga racconta di essere partito da Israele l’8 maggio, di essere arrivato in nave a Genova, di aver proseguito per Marsiglia, rimanendoci tre giorni prima di prendere un treno per Milano. Il suo racconto, fin da subito, non sta in piedi. Anche perché alla pensione francese si ricordano di averlo visto solo una sera. Dov’è stato per il resto del tempo? Ha avuto contatti con qualcuno?

Bertoli finisce a processo e, nel 1975, viene condannato all’ergastolo. Ma il mistero non ha mai smesso di avvolgere la vicenda. Da una seconda indagine emergerà il possibile coinvolgimento dei servizi segreti e di gruppi di estrema destra. Alcuni uomini saranno condannati per aver agito in concorso con il sedicente anarchico, di cui alcuni saranno assolti. La tesi finale dei giudici è che ad organizzare la strage sarebbe stato il movimento neofascista Ordine Nuovo. Alla fine, per mancanza di prove, il veneziano resterà però l’unico colpevole. Uscito dal carcere dopo aver tentato il suicidio, Bertoli morirà per cause naturali nel 2000, portando con sé tutti i segreti sulla strage.