Elena Casetto morì in un rogo il 13 agosto 2019 nel reparto di psichiatria dell’ospedale Papa Giovanni XXIII a Bergamo. La procura ha aperto un fascicolo per capirie come siano andate le cose, come sia stato possibile che Elena avesse con sé un accendino. Il giudice in tribunale ha ascoltato le testimonianza degli infermieri e degli operatori sociosanitari che quel giorno erano presente e hanno assistito al rogo di Elena.

Quella mattina Elena era più agitata del solito. Urlava così tanto da far arrivare una infermiera in stanza per capire cosa stesse succedendo. In quel momento Elena si era avvolta intorno al collo il lenzuolo. L’infermiera chiede aiuto ai suoi colleghi per cercare di fermarla e calmarla.

Elena era molto agitata, inveiva contro di noi, era incontenibile”. E’ il racconto degli infermieri ascoltati in aula che hanno assistito al rogo di Elena nell’ospedale di Bergamo. Sul banco degli imputati: A.B. di Lissone ed E.G. di Paderno Dugnano, gli addetti alla sicurezza di una società di Udine che gestiva il servizio antincendio del Papa Giovanni XXIII. Viene chiamata la dottoressa di turno, racconta il Corriere della Sera, che ordina di contenerla e somministrarle i calmanti. Elena viene poi chiusa in camera. E da qui inizia il mistero degli accendini.

“Gli oggetti personali sono negli armadietti nella sala infermieri”, dice una delle infermiere, spiegando che “è il personale sanitario che accende la sigaretta” ai pazienti. Quel giorno però, testimoniano gli infermieri, Elena era stata controllata cosa avesse addosso. In tasca trovarono il cellulare, ma non accendini. Poi però è scoppiato l’incendio, ed Elena è rimasta uccisa.