La Riforma pensioni prevede nuovi tagli fino alla misura del 35 per cento, se viene applicato il ricalcolo contributivo dell’assegno pensionistico. Addio alla vecchia e cara flessibilità d’uscita, negli obiettivi del Governo Meloni un ritiro più risicato per i lavoratori.

Le trattative sulla riforma pensioni sembrano ormai arenate. Nessuna nuova discussione, nessun cambiamento, si registra uno stallo senza precedenti. La situazione non è migliorata alla luce dei dati sulla spesa pubblica ufficializzati dall’Ente nazionale di previdenza sociale.

Le prospettive non sembrano tra le più floride, tuttavia diverse “indiscrezioni”, garantirebbero il raggiungimento di un target previdenziale per il 2024, considerando che i tecnici del ministero del Lavoro e dell’Economia sembrano voler trovare una soluzione per sbloccare la fase di stallo e proiettare un nuovo cambiamento previdenziale operativo dal prossimo.

Riforma pensioni 2023: tagli fino al 35% e addio uscita anticipata flessibile

Sicuramente, non sono giorni facili per il Paese, ricordiamo che il governo Meloni dovrà sbrogliare il nodo del PNRR, decidere come e quando impegnare 200 miliardi di euro, portando in porto il raggiungimento degli obiettivi.

In questa matassa già complessa di suo dovrebbero essere istituite le nuove direttive previdenziali. La partenza sembra vacillare, in quanto non verrebbe garantita l’uscita anticipata per i lavoratori. Ricordiamo, infatti, che per la misura Quota 103 non si prospetta alcuna proroga, oltre il termine naturale fissato per il 31 dicembre 2023.

Alla luce delle nuove informazioni sul fronte pensionistico, salterebbero le deroghe applicate sui trattamenti previdenziali ordinari. Vediamo insieme quale potrebbero essere gli scenari futuri della Riforma pensioni 2023/2024.

Nessuna modifica alla Riforma Fornero nel 2024?

L’Italia dovrà rimandare nuovamente le modifiche alla legge Fornero? Molto probabilmente, le nuove misure pensionistiche introdotte nel 2024, non entreranno nel merito della riforma Fornero.

Ricordiamo, che secondo tale disposizione normativa in vigore a tutti gli effetti di legge, l’età pensionabile è stata fortemente legata all’aspettativa di vita. Per questo, la pensione di vecchiaia resta a 67 anni (almeno per ora), e la pensione anticipata ordinaria prevede un’uscita dal lavoro a 42 e 41 anni e 10 mesi di versamenti contributivi (differenza uomo – donna).

La nota dolente dovrebbe agganciarsi sulla pensione riservata per i contributivi puri, ovvero su un’anzianità contributiva maturata dopo il 31 dicembre 1995.

Come è noto, infatti, ottengono il trattamento economico previdenziale i lavoratori che maturano il requisito anagrafico e contributivo. Ora, il trattamento economico viene rilasciato, nel momento in cui si rispettano 64 anni di età e 20 anni di contributi, se maturato un assegno pensione fino a 2,8 volte il trattamento minimo. Non un ingente ammontare, ma una somma pari a circa 1.409 euro mensili.

Nuova stretta per i contributivi puri

Il governo italiano dovrebbe apportare dei correttivi per permettere a una maggiore platea di aventi diritto di aderire alla misura. Modifiche che sotto questo aspetto, farebbero saltare l’elemento decisivo legato al limite dell’assegno previdenziale, per questo verrebbe ridimensionato in ribasso nel limite di 1,5 o 1,6 volte il trattamento minimo.

Oltretutto, forse, le nuove integrazioni alla misura dovrebbero permettere l’uscita flessibile anticipata a pensione a 64 anni, con un montante retributivo girato integralmente in quello contributivo. Il che ovviamente ci riporta alle condizioni previste per la pensione Opzione donna.

Tuttavia, esistono diverse versioni per questa misura, infatti, c’è chi ritiene che i lavoratori a 64 anni dovrebbero ricevere solo la prima parte della liquidazione del trattamento, ovvero un assegno parziale misurato sulla parte calcolata con il sistema contributivo. La restante quota retributiva verrebbe riconosciuta raggiunti 67 anni di età.

In altre parole, solo perfezionando l’età pensionabile si maturerebbero entrambe le quote (contributiva e retributiva).

Attenzione però, perché nel merito del primo punto, ricalcolare il trattamento economico previdenziale integralmente col sistema contributivo significa applicare un taglio sull’assegno o, meglio, una perdita non lorda, ma bensì, sul valore netto dell’assegno nella misura che oscilla tra il 20 e il 35 per cento.

Riducendo così il valore della pensione tra il 20 e 130 mila euro, in quanto verrebbero registrati minori incassi al raggiungimento della vita media, ovvero all’uscita dell’età anagrafica pari a 82 anni. Una simulazione già operata in passato dalle parti sociale, ma senza nessuna valida soluzione per arginare il problema.

La riforma pensioni con maggiore flessibilità dove porterebbe?

Per evitare il pasticcio della sforbiciata sull’assegno potrebbe essere introdotta un’uscita anticipata flessibile. Anche se la misura non convince del tutto le parti sociali.

Intanto, potrebbe non dispiacere troppo l’idea di un’uscita flessibile a 62- 63 anni, ma forse, lo stesso non si può dire per la presenza della penalizzazione commisurata al numero degli anni di ritiro anticipato dal lavoro, rispetto alla pensione di vecchiaia ordinaria.

Come noto, non ci sono buone prospettive neanche per la pensione Quota 41 per tutti, libera senza il requisito anagrafico. Una proposta bocciata al nascere a causa del suo ingente peso nelle casse pubbliche.

Sicuramente, il governo Meloni deve considerare diversi fattori, sia agganciati al futuro sblocco dell‘età pensionabile che dell’età media demografica italiana. Per questo, molto probabilmente saranno introdotti diversi incentivi su diversi fronti, tra cui anche per il lavoro fragile.