Le case popolari vengono assegnate sulla base della partecipazione ai bandi messi a disposizioni dalle Regioni e Comuni dislocati sul territorio nazionale. Nella graduatoria di assegnazione dell’alloggio a canone agevolato, si tiene condo di diversi fattori, tra cui: la presenza o assenza di un reddito familiare, possibili disabilità o handicap, monogenitori con figli a carico, senza fissa dimora e così via.
In teoria, l’alloggio di edilizia residenziale viene rilasciato alle famiglie in presenza dei requisiti indicati nel bando di assegnazione. Nonostante, non risulti semplice ottenere una casa popolare esiste anche il rischio di vedersi revocata l’assegnazione dell’alloggio per il concatenarsi di uno o più fattori.
Per questo, cercheremo di fare chiarezza, scoprendo nel dettaglio quando e perché si perde il diritto all’alloggio popolare?
Case popolari: chi non paga l’affitto cosa rischia?
Possedere un alloggio residenziale, spesso non viene considerato come un vantaggio dettato dalla presenza di un canone di locazione agevolato, ma bensì, si trasforma in una grave forma di insubordinazione che porta all’omesso versamento dell’affitto. Sfidando le regole di un distrattato sistema. Tuttavia, non pagare il canone di locazione anche di una casa popolare può produrre degli effetti disastrosi.
Infatti, l’omessa regolarizzazione della pigione porta alla decadenza del diritto all’abitazione.
A questo proposito, occorre ricordare che la normativa applicata per il rapporto di locazione delle case popolari non è simile a quella regolamentata dai privati cittadini. Nel caso degli alloggi residenziale vengono applicate le disposizioni contenute nell’articolo 32 R.D. n. 1165/1938.
Oltretutto, occorre considerare che, per gli inquilini morosi bisogna valutare la presenza dei diversi regolamenti in essere sia in abito regionale che dello stesso Ente che amministra gli immobili residenziali.
Quando chi non paga perde il diritto all’alloggio residenziale?
La normativa che regola i rapporti nelle case popolari tra l’affittuario e l’Ente prevede la richiesta dello sfratto per morosità presentata al tribunale di competenza territoriale. Va detto, che questa è l’ultima tappa, prima esistono diverse azioni promosse dall’Ente per recuperare la somma degli affitti non percepiti.
Infatti, solitamente l’Ente trasmette all‘inquilino moroso l’elenco delle somme a debito da regolarizzare entro un termine massimo di 30 giorni. L’inquilino può rateizzare l’importo con l’applicazione degli interessi.
Nell’ipotesi in cui, viene meno anche il pagamento del rateizzo, scatta la decadenza del beneficio, per cui l’Ente richiede l’intero somma debitoria e in assenza di risposta, avvia un procedimento di sfratto per morosità. In questo caso, l’inquilino sarà messo nelle condizioni di lasciare l’immobile nel tempo stabilito dal giudice.
Non esiste una regola sul limite di tolleranza per omesso pagamento dell’affitto. In linea generale, ogni Ente segue delle regole interne, per cui è possibile che, ad esempio dopo appena tre mensilità non riscosse venga attivata l’azione di riscossione coatta.
Il giudice in presenza di un procedimento di sfratto, procede all’invio dell’ingiunzione di pagamento.
In quest’ultimo caso, il debitore dispone di almeno 40 giorni, con decorrenza dalla data della notifica, per regolarizzare la propria posizione debitoria nei confronti dell’Ente di edilizia residenziale pubblica. Viceversa, può proporre opposizione all’ingiunzione di pagamento.
Se l’inquilino non paga viene sfrattato dall’alloggio popolare. Oltretutto, viene attivata anche un‘espropriazione forzata dei beni (pignoramento), al fine di tentare di recuperare parte del debito.
Decadenza assegnazione casa popolare, cosa cambia per morosità incolpevole
In presenza di una morosità incolpevole vengono attivate diverse agevolazioni per sospendere l’azione dello sfratto sulle case popolari, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 2 del Decreto del 14 maggio 2014.
In particolare, vengono prese in considerazioni diverse circostanze, tra cui:
- perdita o riduzione dell’attività lavorativa per licenziamento;
- presenza di sopraggiunti accordi aziendali o sindacali che portano alla riduzione delle ore lavorative;
- cassa integrazione ordinaria o straordinaria;
- assenza di proroga o rinnovo di contratti a tempo determinato o atipici;
- cessazioni dell’attività d’imprese registrate o libero professionista.