“Vieni a piangere i morti”. È iniziata con una chiamata, con questa frase. Così quel 27 novembre 2022 molte persone in Cina piangevano quel disastroso incendio nella capitale dello Xinjiang, Urumqi, ed iniziava, quasi dal nulla, una protesta spontanea e coordinata – dalla tecnologia – contro le devastanti politiche zero-covid imposte dal Partito Comunista Cinese per combattere il virus. Sui social media cinesi e sulle app di messaggistica in migliaia risposero a quella “chiamata” e così le veglie diventarono delle manifestazioni di massa. I manifestanti alzavano fogli bianchi e intonavano slogan contro i dirigenti del PCC: si ascoltò perfino “Xi Jinping dimettiti, Partito Comunista Cinese dimettiti”. Attacchi diretti contro il leader. Un evento più unico che raro in Cina. Ma le proteste del Libro Bianco in Cina sono state tutto fuorché un unicum: dallo Sri Lanka alla Thailandia diverse sono state le occasioni di manifestazioni che hanno caratterizzato la storia più recente dell’Asia e tutte sembrano essere nate dal nulla. Alcune si sono assopite piano piano che perdevano terreno, altre continuano a resistere, come in Myanmar, dove la resistenza contro la brutale giunta militare continua a discapito della disastrosa guerra civile che si sta consumando nel Paese.
Proteste asiatiche: l’importanza della tecnologia
Questa non è una coincidenza. Gli studiosi indicano un fenomeno più ampio e mondiale: man mano che le proteste di massa diventano sempre più comuni, è anche più probabile che falliscano. Inoltre, lo strumento che si è rivelato cruciale per alimentare queste dimostrazioni, la tecnologia, le ha anche ostacolate.
I dati raccolti dal Carnegie Endowment for International Peace dal 2017 mostrano che le proteste antigovernative sono in costante aumento in tutto il mondo, con un picco nel 2022. Ma l’anno scorso è stato anche l’anno meno riuscito per le proteste, con la percentuale più bassa di movimenti che hanno portato a un cambiamento immediato nella politica o nella leadership.
Una teoria che cerca di spiegare il perché di questo concomitante calo del tasso di successo rinviene la motivazione nell’ascesa dei social media e delle app di messaggistica.
In passato, le proteste sarebbero state organizzate tramite reti comunitarie costruite su anni di attivismo, il che le rendeva più difficili da reprimere, affermano gli esperti. Ma con una connettività senza precedenti, non è mai stato così facile mobilitare spontaneamente le persone e anche rintracciarle. È per questo che la tecnologia si rivela un’arma a doppio taglio.
Durante le proteste contro il colpo di stato in Myanmar nel 2021, le autorità hanno chiuso completamente Internet per impedire ai manifestanti di comunicare tra loro. A Hong Kong e nella Cina continentale, la polizia ha tentato di rintracciare i manifestanti perquisendo telefoni e app di messaggistica crittografate. Ma le proteste del Libro bianco, ad esempio, hanno segnato un risveglio politico nella misura in cui molti cittadini cinesi hanno osato dire ‘no’ al loro governo per la prima volta nella loro vita e quelle proteste hanno spinto le autorità cinesi a revocare le misure anti-Covid. È per questo che, nonostante la repressione, alcuni attivisti cinesi le considerano un successo.
Il successo di una protesta non si misura solo nel raggiungimento degli obiettivi, ma anche dal suo impatto a lungo termine. Le proteste, anche quelle cosiddette fallite, potrebbero gettare le basi per future manifestazioni. La Milk Tea Alliance, una libera coalizione di manifestanti a favore della democrazia in tutta l’Asia, ne è un esempio. Alcune delle tattiche dei manifestanti di Hong Kong del 2019, sono state riprese successivamente dai manifestanti in Thailandia e Sri Lanka. Come i regimi autoritari costruiscono alleanze, così anche le loro rispettive opposizioni cementano solidarietà tra loro.