Tra i libri consigliati da leggere in questo 2023 c’è Captivi di Enrico Sbriglia, un’opera che è un fiume di umanità pronta a raccontare le storie dei “prigionieri”; storie tratte da un’esperienza concreta dell’autore nelle carceri italiane. Un libro da leggere assolutamente.
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Intervista all’autore di Captivi, Enrico Sbriglia
Come nasce questo libro?
“Di fronte alle semplificazioni o generalizzazioni che si è costretti a leggere o vedere, pure attraverso il cinema, la TV , oppure per il tramite di quel mondo dell’informazione seriale, spesso pigro, superficiale, che non scava “di dentro” le notizie, al fine comprendere di come per davvero come siano fatte le carceri e la “comunità di detenuti e detenenti” che ospita, ho ritenuto che fosse mio dovere intervenire in qualche modo sul tema e diversamente dal passato, allorquando mi cimentavo in spiegazioni di natura sociologica e giuridica, preferendo questa vola una modalità diversa, che potesse essere più facilmente compresa anche dalle persone non abituate a parlare di codici e codicilli.
Questo avvalendomi della mia reale esperienza sul campo, una esperienza concreta, fatta di carne e sangue e non di chiacchiere, pregna del vivido ricordo di una moltitudine di persone detenute che ho conosciuto, di speranze e disperazione che ho toccato per mano, avendo lavorato in quel mondo per quasi quarant’anni, tutti però trascorsi, sottolineo, in prima linea, andando sempre a vedere le cose da vicino, mai accontentandomi delle veline ufficiali e dei “sentito dire”, parlando personalmente con i protagonisti, indifferentemente se detenuti o agenti, familiari o volontari, preti o imam, medici o psicologi, consulenti filosofici o criminologi.
Mi sono confrontato con tutte le tipologie di persone detenute, dai terroristi politici a quelli religiosi, ho conosciuto assassini e assassine, poveri disgraziati e manager d’aziende di stato, politici e magistrati anch’essi privati della libertà, ufficiali delle FFAA e semplici soldati, detenuti analfabeti e detenuti filosofi, insomma, mi è stata offerta la possibilità di impiegare il carcere come una sorta di cannocchiale, con il quale, paradossalmente, potevo osservare pure il “mondo di fuori”, consentendomi di capire e vedere delle cose che altrimenti non avrei mai immaginato. Mi sono trovato a sedare, a mani nude, delle rivolte, solo impiegando il buon senso ed il mio essere di parola, sempre, evitando ogni inutile violenza, ancorché esercitata dallo Stato e per questo presumibilmente legale. Ecco, alla ragione della forza ho preferito la forza della ragione e nel libro, attraverso questo personaggio di fantasia, il direttore Cesare Sanfilippo, provo a spiegarle, tento di farlo con delle storie che nascono sempre da vicende vere, per quanto camuffate da nomi necessariamente storpiati, mutati, da location modificate, perché esiste un diritto all’oblio, ancorché i suoi contorni non siano proprio chiari e declinati dalle norme, ma in fondo l’oblio è una condizione che appartiene all’uomo, un po’ come la demenza senile, talché non occorrerebbe l’alibi di una legge.”
Ha tratto ispirazione o c’è qualcosa in comune con il Captivi, commedia, di Plauto?
“No, se non la circostanza che si parli anche nel mio libro di uomini ridotti in prigionia; ho immaginato questo titolo perché mi consentiva di giocare su una ambiguità direi “semantica”: è un modo abituale, consuetudinario, appellare degli individui come “CATTIVI”, facendo riferimento alla loro indole, al loro modo di porsi malvagio, alla loro condotta biasimevole, disonesta, riprovevole, alla loro empietà…raramente, però, si pensa alla natura originaria del termine, quella latina, da “captivus”, prigioniero per l’appunto, e cioè alla condizione di persone private della libertà, inmates come dicono gli anglosassoni. L’idea di questo titolo la coltivavo da anni, da quando, paziente amanuense, avevo preso l’abitudine di annotarmi le storie più strane nelle quali mi imbattevo come operatore penitenziario, come direttore e come dirigente generale. Mi aiutava, nel riassumere le storie, anche l’esperienza che avevo maturato in altri ambiti di rilevanza pubblica, interessandomi di sicurezza e di problematiche sociali: sono stato, infatti, assessore alle politiche sociali ma anche alla sicurezza in una città capoluogo, ricca di fermenti culturali e sociali e posta ai confini dell’Italia, come Trieste, nonché ho trattato in termini importanti, attraverso dei progetti europei di cui l’ufficio di provveditore che presiedevo era capofila, il tema del terrorismo ed il radicalismo religioso, tutto questo mi ha consentito di osservare le cose da diverse angolazioni, nel tentativo di formulare una risposta, immaginare un rimedio o, quantomeno, provare a comprenderle. Queste esperienze ho cercato di trasfonderle nel primo di una serie di libri che intenderei scrivere (così come mi sono pure impegnato contrattualmente con l’editore). In verità, ho la fortuna oggi di poter attingere da un mare di ricordi perché ogni giorno, nella vita reale del carcere, offriva sempre innumerevoli storie d’apprendere, tutte diverse ma tutte collegate in un unico filo intrecciato, fatto di dolore, speranze, risentimenti, delusioni e scoramenti, minacce e talvolta violenze, ma anche di aiuto e sostegno, di curiosa giustizia e talvolta di non giustezza, verso le persone detenute e quelle detenenti.
Un filo denso che, come per il bozzolo del baco da seta, ingloba, incapsula quel mondo ingabbiato che è il carcere, dove i meridiani e i paralleli sono rappresentati dalle sbarre e dalle grate; ma rimane pur sempre un mondo, e risulterà sempre un viaggio quello di chi, a qualunque titolo, sarà tenuto ad attraversarlo e percorrerlo; la stella polare, per alcuni, sarà rappresentata dall’aspirazione di tutte le persone alla libertà, almeno quella interiore, per altre, l’auspicio sarebbe la nostra Carta Costituzionale, scoprendo che non poche volte questi punti di riferimento possano davvero bastare e confortare.”
Libri consigliati da leggere: ci racconta qual è il prigioniero di spicco dell’opera Captivi?
“Non saprei, davvero, distinguerli come importanza e credo che lo stesso sentimento provi il dr. Cesare Sanfilippo, anche per lui, come per me, ogni persona era, è, importante, unica, meritevole di attenzione e di ascolto, anche per prenderne le distanze ove occorresse, assumendo condotte prudenziali; non si tratta di essere “buonisti” o ingenui, ma di stare ai patti: le norme penitenziarie imporrebbero un trattamento individualizzato per ogni persona detenuta; gli operatori penitenziari dovrebbero essere privilegiati nella conoscenza delle persone ristrette perché se le vedono davanti per giorni, mesi, anni, ma anche le persone detenute imparano a conoscere quelle dei sorveglianti, qualunque sia la funzione che quest’ultimi svolgano. Ecco perché si parla, in gergo, di Comunità Penitenziaria (come amava dire Marco Pannella), perché i luoghi della coercizione impongono di stare vicini, a contatto, e soltanto abbandonando il carcere, uscendone fuori per davvero ed in senso letterale, la vicinanza fisica viene meno, ma permane il ricordo.
Posso, però, citare due personaggi del libro che forse più di altri spiegano anche il disagio, il rammarico, l’impotenza del Direttore Cesare Sanfilippo, il quale comincia a dubitare nella religione della Giustizia, soprattutto verso i suoi sacerdoti; sono due storie emblematiche di come la vita dell’uomo non poche volte abbia qualcosa di fatalistico e d’ingiusto: una è quella intitolata “Don Ciccio”, dove si racconta la vicenda di un padre, ergastolano, che pure potendo ottenere la semilibertà, non intende però fruirne e vuole, ostinatamente, rimanere in carcere per espiare fino in fondo, fino alla morte, la sua pena; ha ucciso il figlio, l’unico, tossicodipendente, dopo averlo sorpreso nel picchiare violentemente la madre, lo ha atteso mentre rientrava a casa, in campagna, un solo colpo di fucile al petto e il ragazzo a terra; subito pentitosi, lo ha soccorso, e il ragazzo, mentre esalava l’ultimo respiro, lo implorava di perdonarlo invocando anche la madre. Don Ciccio è un uomo semplice, un contadino, che sapeva lavorare la terra e solo nella sua campagna si trovava a proprio agio. Amava immensamente il figlio e si sarebbe svenato per lui, lo voleva vedere medico e, insieme alla moglie, gli riversava il più grande degli affetti, poi però era venuta la droga e con essa una progressiva ed irrefrenabile dimensione del dolore e di un dramma che ogni giorno superava il traguardo del giorno precedente…nel processo non si era difeso, voleva essere punito. Lascio ai lettori se considerarla una vicenda vera, purtroppo…
L’altro è la storia di un clochard, di Milos, di un cittadino Ceco, che aveva scelto la strada come sua patria di adozione. Proveniva da una famiglia importante, sapeva parlare scioltamente più lingue, un fratello era docente universitario e gli mandava mensilmente una somma di denaro che però giungeva ad un prete conosciuto da entrambi, il quale aveva il compito di somministrargliela in più soluzioni, affinché non la spendesse rapidamente. Milos viveva di elemosina non chiesta; era noto a diversi ristoratori del luogo i quali gli donavano quei cibi non consumati dagli avventori dei locali, una sorta di doggy bag per gli umani, che lui apprezzava senza riserve; amava rovistare esclusivamente nei bottini dove si conferivano i cartoni, i vecchi giornali e le pubblicazioni in genere; allorquando riveniva libri di filosofia, li leggeva avidamente, dopodiché, se erano ancora in buone condizioni e, soprattutto, antichi, per poche monete li rivendeva a degli antiquari. Al direttore Cesare Sanfilippo, durante una sua carcerazione per un reato bagattellare, spiegava come lui conoscesse davvero la città che lo ospitava, ne aveva imparato tutti i colori del cielo, quelli dell’alba e dei tramonti, riconosceva gli odori dei parchi e sapeva percepire il fruscio del vento che fischiava sul colle di San Giusto, luogo dove preferiva accamparsi dall’inizio della primavera fino al termine dell’estate, usando come giaciglio i cartoni che rimediava dai cassonetti.
Sapeva parlare di filosofi antichi e moderni, ma anche di astronomia e di storia antica. Un inverno fu, però, davvero freddo a Trieste, e con la Bora non si scherza! lo ritrovarono, con gli occhi rivolti al cielo con una smorfia che pareva un sorriso, vicino al porto turistico, in una barca di cartoni come ultima dimora; Cesare Sanfilippo apprese della notizia sfogliando il giornale al mattino, nel bar dove era solito concedersi un caffè prima di entrare in carcere; per quel caffè non bastarono due cucchiaini di zucchero…
Sono solo due storie, ma potrebbero essere duecentodue, se non anche duemiladuecentodue, sono storie che evocano ricordi che ho donato, pur con tutte le necessarie modifiche del caso, a Cesare Sanfilippo perché lui le trasformasse in possibili racconti.”