Otto marzo: la festa delle lavoratrici, delle mamme, delle figlie. La festa delle donne, ma non di tutte. Non delle ultime, soprattutto delle donne in carcere. In Italia le detenute sono quasi 2500 persone – per la precisione 2425, stando agli ultimi dati disponibili del ministero della Giustizia – di cui 24 madri con a seguito i propri figli. Poco più del 4 per cento del totale, sparso tra le 5 carceri femminili e quelle pensate e costruite per ospitare uomini, dove sono presenti piccole sezioni femminili, e quindi non del tutte adatte alle donne in carcere. Prison Felloship, per bocca del suo presidente della sezione Italia, Marcella Reni, denuncia: “manca il rispetto dei diritti”.

Dunque, un gender gap – termine invocato da più o meno tutti durante l’8 marzo – anche in queste condizioni. Sì è vero che nelle carceri maschili c’è una parte dedicata alla donne, ma “la verità è che hanno meno possibilità di fare attività, ma la sezione femminile occupa una piccola parte”, ricorda Reni. “Sono un po’ trascurate, c’è una forma di discriminazione e ci sono anche madri con figli al seguito. Sul territorio italiano ci sono 5 carceri totalmente femminili (Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli, Venezia Giudecca, ndr), e ospitano un piccolo numero di donne: un quarto del totale”. Le più sfortunate sono invece spedite nei carceri maschili. “E questo non agevola la detenzione e il rispetto dei diritti”, aggiunge Reni.

Sono detenute che per la maggiore sono in prigione a causa della loro debolezza economica, perché spesso gli uomini le spingono a prostituirsi o a spacciare, oppure a causa della povertà culturale che le rende molto fragili”, spiega la numero uno di Prison Fellowship Italia. “Per questo le pene sono brevi, ma la recidiva è piuttosto alta. Solo una 30ina è stata punita con la massima pena, ossia l’ergastolo, ma sono donne che fanno parte della criminalità organizzata”.

Ci sono però alcune oasi ‘verdi’. “A Rebibbia le detenute hanno creato una squadra di calcetto, che si misura con le persone libere. E sono molto brave. Stanno vincendo un sacco di premi. Noi come volontari cerchiamo di fare diverse attività in carcere, a prescindere dal genere. A Natale, a Rebibbia, portiamo gli chef stellati e a servire al tavolo ci sono anche i vip. È un messaggio per dire che la società le attende fuori, ma cambiate. E per una sera le facciamo sentire principesse. Quest’anno abbiamo avuto due chef stellati e Lorella Cuccarini che serviva ai tavoli. Purtroppo per l’8 marzo in carcere- dice il presidente di Prison Fellowship Italia – non siamo riusciti a organizzare nulla per mancanza di temo, ma c’è sempre la Festa della Mamma“.

8 marzo in carcere, Prison Fellowship: “In Medio Oriente donne torturate”

Probabilmente molte denunce sono arrivate da parte delle detenute, per la loro situazione e la ‘poca’ libertà, ma una è rimasta impressa nella mente del presidente Reni.

Quella di una detenuta del carcere di Como, maschile, che “condanna l’impossibilità di fare corsi di musica, teatro e la parte dedicata all’aria non ha strumenti adatte alle donne. Sono questi i problemi dei carceri italiani”. Certo è che l’Italia sicuramente non è il miglior stato, né di certo il peggiore per quanto riguarda le condizioni delle detenute. Basta pensare ai carceri nel Medio Oriente.

In questi paesi sono totalmente segregate, sicuramente anche torturate. Non ne abbiamo contezza ufficiale, però se pensiamo all’Iran dei giorni nostri, dove le donne vengono picchiate per un capello fuori posto, è molto probabile. Chi esce infatti denuncia torture, ma sono pochissime quelle che riescono a lasciare le carceri. Lì esiste la pena di morte per reati come l’adulterio. Stessa cosa in Cina e anche nelle carceri americane la situazione non è differente”. Mentre in Africa, che spesso viene tacciato come un continente arretrato, le donne sono trattate diversamente. “In Etiopia le detenute sono libere di stare all’aria, dove lavorano a maglia. Pensiamo che sono indietro, ma lì vige la giustizia riparativa. Ad esempio, in caso di delitti efferati, si mettono insieme comunità, famiglia e il reo, per trovare una soluzione riparativa”. Alla fine è solo una questione di cultura e volontà, che però sembra mancare. Troppo spesso.