Quando, al termine della proiezione di un film, tutto il pubblico in sala ha gli occhi lucidi e il fazzoletto in mano, significa che quel film, in un modo o nell’altro, è riuscito a toccare le corde più sensibili di ciascuno dei presenti. È quello che è successo con The Whale, l’ultimo film di Darren Aronofsky, che alla 79° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia ha vinto il Leoncino d’Oro e ricevuto una standing ovation di sei interi minuti.
The Whale: la balena bianca di Aronofsky
Charlie, magistralmente interpretato da Brendan Fraser, è un docente universitario di inglese e scrittura creativa, che insegna esclusivamente online. Segnato da un passato drammatico, l’uomo si è rifugiato in una dipendenza da cibo che lo ha portato a raggiungere un peso di oltre 250 chili. Consapevole di stare per morire, Charlie tenta di riallacciare i rapporti con la figlia adolescente (Sadie Sink), che non vede da anni.
Per tutta la durata del film, Charlie trova un apparentemente inspiegabile conforto nella lettura e rilettura di un vecchio tema scolastico sul romanzo Moby Dick, di cui solo alla fine della storia scopriremo l’autore. Se all’inizio potremmo pensare che sia Charlie stesso “la balena” del titolo, andando avanti con la trama scopriamo che questo ha una doppia chiave di lettura: “la balena” Charlie, con la sua incredibile mole, ma soprattutto la balena bianca del libro di Melville, come allegoria di una ricerca ossessiva. Com’è ossessiva e a tratti disperata la ricerca del protagonista del significato della propria vita che, sul punto di perderla, ha bisogno di ritrovare.
Un dramma in una stanza
Quasi l’intera azione del film si svolge all’interno del salotto di Charlie. Quasi fosse un pianeta che esercita una propria forza gravitazionale, intorno a lui si muovono gli altri personaggi: l’infermiera e amica Liz (Hong Chau) che se ne prende cura, il giovane missionario Thomas (Ty Simpkins), l’ex moglie Mary (Samantha Morton), ma soprattutto la figlia Ellie (Sadie Sink).
Le intense interpretazioni degli attori consentono di sorvolare sul leggero senso di claustrofobia trasmesso dall’ambientazione. Brendan Fraser, candidato al premio Oscar come miglior attore, non ha bisogno di presentazioni. Hong Chau, con la sua intensa interpretazione dell’infermiera Liz, si è aggiudicata a sua volta una candidatura al premio Oscar come miglior attrice non protagonista. E la giovanissima Sadie Sink, dal canto suo, dopo il suo ruolo in Stranger Things divenuto sempre più centrale stagione dopo stagione, dimostra di essere ormai un’attrice in piena regola, destinata ad una carriera di sicuro successo.
La bontà dell’essere umano
Al termine della visione di qualsiasi film, lo spettatore non esperto di cinema si pone di solito una semplice domanda: mi è piaciuto? Non mi è piaciuto? È, a mio parere, “un bel film”?
Nel caso di The Whale, la risposta non è scontata. Lo è, in quanto è un prodotto ben confezionato, impeccabilmente diretto e magistralmente interpretato. Ma non è piacevole da guardare, al contrario, è doloroso da seguire e ancor più duro da “elaborare” dopo la visione. L’indugiare della telecamera sul corpo deformato di Charlie è volutamente disturbante, scelta che è costata al film numerose polemiche e accuse di grassofobia. Il disfacimento del corpo come effetto visibile del male che l’uomo fa a se stesso è un tema ricorrente nei film di Aronofsky: l’abbiamo visto, ad esempio, nella ballerina autolesionista de Il cigno nero e, in modo particolarmente crudo, con gli effetti dell’abuso di eroina in Requiem for a dream.
Tuttavia, seppur drammatico, The Whale sembra nascondere un messaggio positivo: l’essere umano, persino quando appare egoista, cinico e addirittura sadico, è intrinsecamente buono e naturalmente predisposto ad amare.
È forse questa la vera “balena bianca”: la ricerca del bene nel cuore dell’uomo che, come la balena Moby Dick del capitano Achab, talvolta è così sfuggente da farci credere che sia un’illusione. Ma, così come Achab, sappiamo che c’è, e siamo disposti a cercarlo, talvolta fino alla follia.
Chiara Genovese