La prossima assemblea del Partito Democratico prende forma. Dopo l’esito delle primarie la conformazione sarà la seguente: 333 delegati per Elly Schlein 267 Stefano Bonaccini, 20 Gianni Cuperlo. Paola De Micheli non ha superato lo sbarramento alla prima fase delle primarie e, quindi, non vedrà rappresentata la propria mozione. Motivo per cui ha annunciato, tra il primo e secondo turno, il proprio appoggio a Stefano Bonaccini. Quella fase di mezzo tra primo e secondo turno, a ben vedere, ha fatto la differenza. Con Schlein che è stata in grado, anche grazie al voto dei non iscritti al Pd, di ribaltare il risultato. Un fatto storico: è la prima volta nella storia del Pd che il vincitore nei circoli non viene eletto segretario. È un fatto nuovo, inedito, che non è stato esente da critiche e dubbi. Lo è tutt’ora. Il senatore Enrico Borghi, che ha sostenuto Bonaccini, ha detto interpellato dall’AGI:

Queste primarie pongono un tema inedito: il ribaltamento delle scelte tra gli iscritti e gli elettori del Pd. La vicenda delle primarie pone l’indubbia esigenza di una riflessione di questo tipo, ora finalmente scevra da strumentalità, per costruire un partito che sappia declinare la rappresentanza politica nella modernità e contribuire con ciò al rafforzamento di una Democrazia rappresentativa oggi malata nel nostro Paese, come attesa la disaffezione elettorale in varie circostanze.

I numeri usciti dalle primarie saranno certificati entro 10 giorni quando, domenica 12 marzo, l’assemblea si insedierà per votare l’ufficio di presidenza e il tesoriere. È un passaggio cruciale per inaugurare l’era Schlein. L’assemblea è un organo importante, tutt’altro che marginale, basti pensare che è l’unico che ha il potere di sfiduciare – a maggioranza assoluta – la segretaria.

Lo schema dell’assemblea del Pd ed i corsi (ricorsi) storici

La vittoria di Elly Schlein è netta. Tuttavia, i numeri a suo favore siano un po’ più risicati di quelli dei leader che l’hanno preceduta. Nicola Zingaretti, eletto segretario nel marzo 2019, poteva contare su 653 delegati dei mille di cui era composta allora l’assemblea (prima della riforma dello statuto del 19 novembre 2022), contro i 228 di Maurizio Martina e i 119 di Roberto Giachetti. Ancora meglio andò a Matteo Renzi nel 2017 quando si assicurò una maggioranza schiacciante di 700 delegati, contro i 212 di Andrea Orlando e gli88 di Michele Emiliano. Ai delegati eletti in seguito alle primarie (colo che erano collegati alle mozioni dei candidati alla segreteria) si aggiungono: i segretari fondatori del Pd (Letta, è uno di questi),  gli ex segretari nazionali del Pd iscritti (ancora Letta e Zingaretti, mentre Renzi non è più iscritto), gli ex Presidenti del Consiglio iscritti (Paolo Gentiloni e, ancora una volta, Enrico Letta), i segretari regionali, i segretari provinciali, i segretari delle federazioni all’estero, delle città metropolitane e regionali, la Portavoce della Conferenza nazionale delle donne, i coordinatori Pd delle ripartizioni estero, il segretario dei Giovani Democratici; cento tra deputati, senatori ed europarlamentari aderenti al partito indicati dai rispettivi Gruppi, i sindaci delle città metropolitane, dei comuni capoluoghi di provincia e di regione e i presidenti di regione iscritti ed in attualità di mandato.

La maggioranza, pur non essendo bulgara, è netta. Ed è verosimile immaginare che Schlein, forte del suo potere, riuscirà ad allargarla portando alcuni dirigenti dalla sua parte. È uno schema che si è verificato più volte nel Pd. Una tendenza inversamente proporzionale a quella che vede, poi, la minoranza bersagliare il quartier generale per logorare la leadership. Di questo ha parlato, recentemente, l’ex segretario Nicola Zingaretti per il quale il peggior difetto del Pd è “la presenza di un nucleo moderato, conservatore che in maniera un po’ oligarchica, dopo una scelta democratica del segretario, se non gli va bene lo logora”.