Scoperta un’organizzazione di stampo mafioso collegata all’Ndrangheta calabrese in provincia di Verona.
A stabilirlo è stato il Tribunale scaligero, presieduto da Pasquale Laganà, con la tanto attesa sentenza emessa ieri sera, intorno alle 21, a carico di 23 imputati, accusati di aver operato illecitamente, a vario titolo, a favore del cosiddetto “Clan Giardino”, aderente all’organizzazione criminale calabrese.
I pubblici ministeri veneziani Lucia D’Alessandro e Stefano Buccini hanno contestato, oltre all’associazione per delinquere di stampo mafioso, anche i reati di estorsione, truffa, riciclaggio, corruzione, turbativa d’asta, fatture false, traffico di droga. E l’impianto accusatorio (che richiedeva complessivamente quasi 300 anni di carcere) è stato in gran parte confermato.
In totale sono infatti, stati inflitti 150 anni di reclusione a 17 degli imputati che all’esito delle indagini condotte dall’Anticrimine e dallo Sco oltre che dalla Mobile di Verona e di Venezia risultano aver fatto parte, seppur con ruoli differenti, dell‘Ndrangheta che ha radici nella città di Verona.
La sentenza pronunciata ieri è punto d’arrivo dell’inchiesta denominata “Isola Scaligera” che, nel Giugno 2020 smantellò quella che, secondo la Procura antimafia di Venezia, costituiva un’articolazione del clan guidato dal boss Pasquale Arena, di Isola Capo Rizzuto. Un gruppo pericoloso, con disponibilità di armi, che secondo gli inquirenti era in stretto contatto con la casa madre.
Per ricostruire tutte le attività illecite, gli investigatori si sono avvalsi di numerose intercettazioni telefoniche e ambientali, ma anche delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, i quali hanno raccontato che l’organizzazione radicata nel Veronese aveva principalmente il compito di ripulire i soldi sporchi: niente azioni eclatanti, che avrebbero richiamato l’attenzione delle forze dell’ordine.
L’obiettivo era quello di infiltrare l’economia: tra gli affari finiti sotto inchiesta, alcuni hanno toccato anche Amia, la municipalizzata dei rifiuti del Comune di Verona, che si è costituita parte civile al processo a fianco di Cgil e Regione Veneto.
‘Ndrangheta Verona: la lettura della sentenza
La sentenza letta nell’aula della Corte d’Assise nella giornata di ieri dal presidente del collegio composto anche dai giudici Enrico Zuccon e Valentina Fabiani ha così confermato le indagini portate avanti dal 2020.
La locale di ‘Ndrangheta e Antonio “Totareddu” Giardino, classe 1969, detenuto nel carcere di Opera e in video collegamento, è il vertice indiscusso di quel sistema che il pm Lucia D’Alessandro aveva più volte definito come un “camaleontico adattamento al territorio (il Veneto e Verona) che si accinge a colonizzare e che colonizza”.
Ieri sera sia la D’Alessandro che il collega Buccini che si trovavano in aula la momento della sentenza non hanno voluto rilasciare dichiarazioni, ma quegli oltre cento anni di reclusione confermano la loro tesi: l’esistenza di un’associazione mafiosa in Veneto.
Oltre agli anni di reclusione inflitti, ci sono state anche 6 assoluzioni e la disposizione da parte del tribunale alla confisca di circa 200mila euro (già sequestrati) a carico di sette imputati e condannato tutti, in solido a risarcire le parti civili fissando una provvisionale di 150mila euro alla Regione, 15mila euro a Amia e 15mila euro ciascuno a Cgil Veneto e Cgil Verona.
Infine effettuate anche le interdizioni in perpetuo piuttosto che per cinque anni a ricoprire cariche pubbliche, a contrattare con la pubblica amministrazione e a dirigere uffici finanziari.
Le condanne
La pena più pesante, 30 anni di reclusione, è stata inflitta ad Antonio Giardino di 54 anni, detto “il Grande”, considerato il capo indiscusso e al fratello, Alfredo Giardino.
23 anni a Michele Pugliese, ritenuto una sorta di alter ego del capo, 15 anni a Francesco Vallone, titolare della Centro studi Fermi, dove si sarebbero dovuti svolgere i corsi fantasma per gli operatori dell’Amia, l’azienda municipalizzata di Verona.
Assolta invece la moglie di Antonio Giardino, Antonella Bova, titolare della Giardino Costruzioni, per la quale la Procura antimafia aveva sollecitato 26 anni di reclusione in quanto, secondo la pubblica accusa, era stata utilizzata dal coniuge per rivestire di liceità le proprie operazioni illecite e Luigi “Paolo” Russo, per il quale i pm avevano chiesto 24 anni di carcere.