Quando parliamo di verismo, il primo nome a venirci in mente è quello di Giovanni Verga. Lo scrittore catanese descrisse la miseria della Sicilia nella sua epoca senza provare ad addolcirla, rappresentando in modo crudo le vite di poveri pescatori, contadini, minatori.

Tuttavia, anche le aspre montagne del nord Italia sono state terreno fertile per la nascita di un autentico verismo settentrionale, assai meno conosciuto. L’esempio più fulgido è rappresentato dal romanzo Maria Zef di Paola Drigo. Vincitore del prestigioso Premio Viareggio nel 1937, il libro fu trasposto su pellicola nel 1981 da Vittorio Cottafavi. Arricchito dalle interpretazioni del poeta carnico Siro Angeli, nel ruolo di barbe Zef, e delle giovanissime Renata Chiappino e Anna Bellina, il film non riscosse però il successo sperato. In parte per le particolari scelte stilistiche del regista, ma anche perché il popolo friulano criticò pesantemente il modo in cui la pellicola lo rappresentava.

Maria Zef verismo, la scelta della lingua

Quando Paola Drigo scrisse il suo romanzo, in pieno Ventennio fascista, era obbligatorio per gli scrittori adoperare una perfetta lingua italiana. Un linguaggio che mal si addiceva ai protagonisti del racconto, rozzi montanari poco o per nulla scolarizzati.

Cottafavi, invece, scelse di ripristinare la lingua “originale” dei personaggi: un friulano strettissimo, incomprensibile per lo spettatore non del luogo. I sottotitoli in italiano, inoltre, sono didascalici: consentono di seguire la trama, ma non di carpire le numerose espressioni popolari che costituiscono lo spirito della lingua.

Tocca allo spettatore, dunque, sforzarsi di decifrare tali espressioni non tradotte. Una scelta suggestiva ma impopolare, che contribuì allo scarso successo del film.

Tra violenza e miseria

Ambientato sulle Alpi carniche, in Friuli, Maria Zef narra la storia della quindicenne Maria “Mariute” Zef. La ragazza vive in una baita isolata insieme alla sorellina Rosute, di nove anni, alla madre, allo zio (barbe in lingua friulana) e al cagnolino Petoti. Il padre, fratello di barbe Zef, è morto molti anni prima, facendo fortuna in America.

D’estate, le tre donne vagano a piedi per la provincia, trascinandosi dietro una carretta carica di stoviglie e posate di legno da vendere. D’inverno, vivono isolate nella capanna, impossibilitate a spostarsi per via delle abbondanti nevicate.

Dopo la morte della madre, le due bambine restano sole con lo zio, e Mariute si fa carico della cura della casa e della sorellina. Quando la piccola Rosute si sloga una caviglia, il problema viene dapprima trascurato, finché non si aggrava a tal punto da costringere Mariute ad accompagnarla all’ospedale nel paese più vicino.

Rimasti soli nella capanna, barbe Zef, ubriaco, abusa sessualmente di Mariute. Disperata, la ragazza si confida allora con un’anziana vicina di casa con fama di guaritrice. Da quest’ultima scopre che sua madre prima di lei era stata vittima dei ripetuti abusi del cognato, e che Rosute stessa è in realtà figlia dello zio. Non solo: la donna sarebbe morta proprio a causa delle conseguenze dei frequenti aborti clandestini, praticati con l’aiuto dello stesso barbe Zef.

Poco dopo, lo zio comunica a Mariute di aver deciso di mandarla a lavorare come serva presso una famiglia del paese. Rosute, invece, resterà sulla montagna con lui. Temendo che, prima o poi, egli possa approfittare anche della sorellina, Mariute decide allora di eliminarlo. Quando il barbe, di nuovo ubriaco, si addormenta, la ragazza afferra un’accetta, decisa ad ucciderlo nel sonno.

La violenza suggerita

Il film non indulge mai nella rappresentazione visiva della violenza. Sia nel caso dell’abuso sessuale che in quello dell’omicidio, la brutalità è solamente suggerita dai discorsi tra i protagonisti e dalle espressioni facciali degli attori, con il contributo della colonna sonora.

Un mondo senza speranza

Maria Zef descrive un mondo feroce e senza speranza, dove la vittima si trasforma in carnefice, e il carnefice è a sua volta una vittima. Nell’aspro paesaggio montanaro, dove a regnare sono gli elementi, incuranti degli uomini, la violenza e l’incesto sembrano quasi una naturale conseguenza dell’isolamento e dell’ignoranza.

Paragonati agli abitanti del paese, i montanari protagonisti appaiono in qualche modo privati della loro umanità, quasi selvatici. Tale “animalità” è tanto più dirompente nella piccola Rosute, che alla salvatichezza della miseria mescola quella dell’infanzia, divenendo una creatura di puro istinto, che le suore dell’ospedale tentano invano di addomesticare.

La ben più docile Mariute ripone la propria unica speranza di riscatto nel tenero sentimento, ricambiato per il giovane Pieri, partito per l’America con la promessa di ritornare ricco entro quattro anni. La prospettiva di un matrimonio che, tuttavia, non appare mai come un concreto progetto di vita, ma piuttosto come una fantasia consolatoria, di cui la violenza dello zio la priva definitivamente.

Il costante senso d’angoscia che permea la pellicola, insieme alla difficoltà della lingua, rende Maria Zef impegnativo da guardare e da “digerire” dopo la visione. Questo, tuttavia, non deve scoraggiare l’appassionato cinofilo, che si troverà di fronte ad un piccolo gioiello dimenticato, e per questo ancora più prezioso.

Maria Zef fu trasmesso in due puntate su Rai 3 (allora Terza Rete) tra il 21 e il 28 novembre 1981. Da quel momento, ad eccezione di un paio di passaggi televisivi su Fuori Orario, il programma notturno di Enrico Ghezzi, il film fu praticamente dimenticato.

Nel 2019, il film è stato restaurato e proiettato alla 76° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, permettendo al pubblico di riscoprirlo.

Chiara Genovese