Il Congresso, la Casa Bianca e la Corte Suprema degli Stati Uniti stanno concentrando la loro attenzione su una legge federale che da tempo assolve la funzione di scudo legale per le piattaforme online.

Sono infatti in corso due cause legate ai big tech che coinvolgono l’attore protagonista dell’intera vicenda: la “Sezione 230″, una legge federale che oggi tutela il funzionamento di Internet e che da tempo è oggetto di forti critiche sia da parte dei repubblicani sia dei democratici.

Ma vediamo di cosa si tratta nel dettaglio.

Sezione 230, quando è nata e quali sono i suoi vantaggi per i big tech

La “Sezione 230” nasce nel 1996 e rappresenta l’arma che le aziende tecnologiche coinvolte nelle dispute (ma più in generale tutti i colossi tech) intendono usare come strumento di difesa. L’accusa delle cause sopra citate riguarda in particolare il “sostegno” dato dall’algoritmo rispetto a contenuti che inneggiano al terrorismo islamico.

Il nocciolo della questione risiede dunque nel “modo” in cui le piattaforme online (siano esse social oppure semplici siti web) presentano i contenuti. La Corte Suprema sta ancora valutando se ascoltare altri casi simili per dinamica (e che implicano l’adozione della Sezione 230), mentre i membri del Congresso hanno espresso un rinnovato entusiasmo per la riduzione degli scudi così come richiesto in una recente intervista dal presidente Joe Biden.

In maniera al quanto ironica, la “Sezione 230” è spesso conosciuta con il nomignolo “le 26 parole che hanno creato Internet”. A pochi anni dalla creazione del World Wide Web, il Congresso americano approva il Communications Decency Act, una sorta di codice etico e morale nel mondo dell’informazione, di cui fa parte anche la Sezione 230. La legge era nata con l’intento di scoraggiare l’eventualità che le aziende si facessero causa tra di loro per la pubblicazione di contenuti analoghi, in una fase storica dove nascevano startup come funghi, essendo il mercato in pieno boom.

Al giorno d’oggi, invece, la Sezione 230 consente, per esempio, di condurre inchieste giornalistiche su personaggi di alto rango, i quali, altrimenti, vincerebbero senza appello un’eventuale causa da parte di chi vorrebbe mettere a tacere la libertà di informazione. Una vera e propria immunità che consente a piccole imprese ma anche a colossi del ramo di moderare in totale autonomia i propri contenuti.

Non solo, perché la responsabilità legale legata alla pubblicazione di un determinato contenuto ricade sulla persona o sull’entità che lo ha creato, non sulle piattaforme su cui il contenuto viene condiviso o sugli utenti che lo condividono.

I big tech ovviamente difendono la Sezione 2030, etichettandola come “il pilastro giuridico che conferisce a Internet lo status di spazio libero e aperto come lo abbiamo sempre conosciuto”.