È stato interrogato dai pm della Procura di Bologna Giovanni Padovani, il 27enne accusato di aver ucciso l’ex fidanzata, Alessandra Matteuzzi, lo scorso 23 agosto. “Era la mia ossessione”, avrebbe detto l’imputato, negando la premeditazione e sostenendo di aver agito d’impulso, perché preso da una furia cieca.

Omicidio Alessandra Matteuzzi: la ricostruzione dei fatti

Tutto è iniziato il 24 agosto scorso quando, dopo le segnalazioni ricevute da alcuni residenti del cortile condominiale della palazzina in cui Alessandra Matteuzzi abitava, nel quartiere Arcoveggio di Bologna, le forze dell’ordine, giunte sul posto, avevano trovato la 56enne riversa a terra, con evidenti feriti alla testa e priva di sensi: trasportata all’Ospedale Maggiore in condizioni disperate, era morta poco dopo il ricovero. A permettere agli inquirenti di ricostruire le dinamiche del delitto era stata la testimonianza della sorella, con cui la donna era al telefono al momento dell’omicidio: “È scesa dalla macchina e ha cominciato a urlare ‘no Giovanni, no, ti prego, aiuto” – aveva raccontato la donna, che aveva immediatamente allertato le autorità -. “Alla fine l’ha massacrata di botte […]. Era poco più di un anno che si conoscevano, però dallo scorso gennaio aveva cominciato ad avere delle ossessioni verso di lei”.

Il riferimento era a Giovanni Padovani, ex compagno della vittima, soggetto a una procedura restrittiva nei confronti di Alessandra a seguito di una denuncia per stalking presentata dalla donna qualche mese prima e accettata dal giudice di Bologna con la seguente motivazione: “La personalità dell’indagato animato da un irrefrenabile delirio di gelosia e incapace di accettare con serenità il verificarsi di eventi avversi, come la cessazione di un rapporto per di più caratterizzato da incontri sporadici sono una manifestazione di eccezionale pericolosità e assoluta incontrollabilità”. Secondo le successive ricostruzioni, il 27enne avrebbe ucciso la vittima a colpi di martello perché non accettava la fine della loro relazione. È ora accusato di omicidio aggravato da premeditazione, futili motivi, stalking e legame affettivo.

Le dichiarazioni di Giovanni Padovani ai pm

Interrogato dai pm della Procura di Bologna, che si stanno occupando del caso, nella giornata di ieri Padovani ha rilasciato le sue dichiarazioni. “Lei era la mia droga, la mia ossessione”, avrebbe detto agli inquirenti, negando la premeditazione e sostenendo di aver agito d’impulso, colto da una rabbia improvvisa. “L’idea di ucciderla era solo virtuale”, avrebbe aggiunto. Stando a quanto riportato dal Resto del Carlino, l’interrogatorio sarebbe stato sospeso diverse volte, a causa delle crisi di pianto del 27enne. “Con sofferenza e patimenti ha riferito circostanze e fatti utili a spiegare come un ragazzo di 27 anni sia arrivato all’esasperazione, tale da compiere un gesto di tale gravità nei confronti di una donna così più matura di lui”, ha spiegato il suo difensore, l’avvocato Gabriele Bordoni.

Dopo averlo ascoltato per ore, i pm si apprestano ora a chiedere il giudizio immediato. In attesa che venga fissata l’udienza davanti alla Corte d’Assise, la difesa spingerà per una perizia psichiatrica nei confronti dell’imputato. “Valuteremo di fare istanza per un incidente probatorio in modo da accertare le condizioni psichiche del mio assistito – ha spiegato sempre Bordoni -. Padovani ha spiegato ai pubblici ministeri i tormenti intervenuti, in un quadro particolare. Una condizione alterata dovuta da un lato a una predisposizione psichica, dall’altro alla relazione fortemente tossica e morbosa con la donna”. Subito dopo essere stato fermato, Padovani si era avvalso della facoltà di non rispondere. Ma le indagini, nel frattempo, hanno dimostrato che l’uomo, già un mese e mezzo prima del delitto, scriveva nelle note del cellulare che l’avrebbe uccisa. Una versione, quella della premeditazione, smentita dall’imputato, che afferma di essere stato colto dalla collera per i “continui tira e molla e cambi d’atteggiamento” della vittima. Avrebbe portato con sé il martello, dice, solo per difendersi dal cognato, che più volte “era stato minaccioso”.