Politologo, docente dell’Universita della Tuscia, esperto di comunicazione politica e mass media. Luigi Di Gregorio ha commentato, in esclusiva, l’esito delle elezioni regionali che hanno visto – e in Lazio e in Lombardia – vincere la coalizione di centrodestra. Di Gregorio, tra le altre cose, è autore di un libro che, pubblicato nel 2019, ha anticipato molti temi che stiamo vivendo in maniera palpabile e che la tornata elettorale appena conclusasi ha messo in evidenzia: la sfiducia politica che si trasforma, elettoralmente parlando, in astensione. Il libro è ‘Demopatia. Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico’.

Regionali, cosa succede nei partiti, il rischio del leaderismo: le parole di Luigi Di Gregorio

Balza subito agli occhi il dato dell’affluenza. la Demopatia di cui scrivi nell’omonimo libro edito da Rubbettino non solo trova conferme, ma si palesano sempre più i tratti della “malattia”. in che direzione stiamo andando?

Si, la direzione è sempre quella. La tendenza alla disaffezione continua, non solo in Italia e non solo alle elezioni regionali, come sappiamo. Devo dire, nel caso del voto del 12 e 13 febbraio scorsi, che il dato balza agli occhi ancora di più perché per Lombardia e Lazio nel 2018 e nel 2013 si era votato lo stesso giorno delle elezioni politiche. Questo ha alzato l’affluenza in quei due precedenti non di poco. Senza le elezioni politiche avremmo avuto una partecipazione molto più bassa anche 5 e 10 anni fa. 

“Le cose esistono finché sono sui media”. È stata una campagna dai toni bassi e senza grossi picchi mediatici: il centrosinistra avrebbe dovuto alzare il livello dello show per contrastare (almeno tentare) il clima pro-centrodestra che c’è oggi in Italia? Pensi che il centrodestra, forte dei sondaggi favorevoli, abbia volutamente cercato di tenere basso il volume dello scontro?

È difficile alzare il tono dello scontro se sei uscente. Tanto più se governi da 10 anni e non solo da 5. Peraltro, le Regioni non sono un’istituzione particolarmente “sentita” dai cittadini. E infine, i tre candidati non erano molto noti. D’Amato non è Zingaretti. Rocca e Bianchi hanno avuto pochissimo tempo per provare ad acquisire notorietà. A Rocca non conveniva alzare eccessivamente i toni, visti i sondaggi. A Bianchi sicuramente di più, ma non era facile considerando che la Giunta regionale uscente era Pd-5 Stelle. È stata una campagna breve, senza oscillazioni, poco mobilitante e che ovviamente ha comportato una partecipazione bassa e un dato finale guidato dai voti di partito.

Si parla di una vittoria “spinta dal vento” e quel vento spira il nome di Giorgia Meloni. Una provocazione: non c’è il rischio che si tratti dell’ennesimo exploit di leaderismo che poi, quando scemerà fisiologicamente, riporterà alla luce lacune politico-istituzionali che alimentano malcontento e sfiducia?

Quel rischio c’è. È il rischio di qualsiasi leader popolare, col vento in poppa praticamente in tutte le democrazie occidentali. In Italia il fenomeno della personalizzazione della politica è forse anche più accentuato che altrove. Non c’è dubbio che il vero pericolo per Giorgia Meloni sia prima di tutto legato alla tenuta della sua popolarità e credibilità, del suo appeal. Stando a un sondaggio dell’università Bocconi, l’83% di chi ha votato Fratelli d’Italia il 25 settembre non ha votato né per il programma, né per il partito. Ha votato per Giorgia Meloni. Il problema sta nel “fisiologicamente” contenuto nella domanda. Se guardiamo alla storia recente di leadership che durano poco ne abbiamo a volontà. Riuscirà Giorgia Meloni a invertire questo trend? È la domanda delle domande.

Torno sul leaderismo e penso a Berlusconi, Renzi, Salvini. Da quando i partiti sono in crisi le ideologie sono venute meno ed il voto è diventato “leader oriented”. Si vota spinti dalle emozioni, non dalle idee. Cosa può fare meloni per evitare la parabola che ha colpito i predecessori che ho menzionato prima?

È molto difficile capire cosa si possa fare. Sicuramente può evitare una sovraesposizione mediatica che rischia di accelerare il “consumo” della sua immagine di novità. E su questo mi pare si stia muovendo bene. Allo stesso modo, deve cercare di risultare il più possibile coerente con le sue idee e la sua storia, pur essendo passata da capo dell’opposizione a capo del governo. Questo è più difficile, ma anche qui mi sembra stia riuscendo nell’intento. Il vero dilemma è capire come invertire quel “fisiologicamente” di prima. Cioè, è possibile che l’elettorato non si “stanchi” di Giorgia Meloni e non cerchi alternative e novità? Per ora i numeri non mettono a rischio la tenuta di Meloni e i leader degli altri partiti sono quasi tutti già delegittimati e screditati. Questo potrebbe aiutare la durata sulla cresta dell’onda da parte del Premier.

Come ne esce la coalizione di governo? Meloni potrebbe aver fatto un piccolo capolavoro: vincere senza cannibalizzare (e quindi attirare il malcontento dei suoi leader) gli altri partiti di centrodestra…

Si, questo sembra il quadro. Nei sondaggi Lega e Forza Italia risultavano più bassi rispetto al dato reale, specie nel Lazio. La bassa affluenza ha ridotto il voto di opinione – oggi molto orientato su Fratelli d’Italia – e ha incrementato il peso specifico dell’elettorato di appartenenza. Questa credo sia la ragione per cui i sondaggi hanno sottodimensionato Lega e Forza Italia rispetto al dato dei voti veri. Indubbiamente questa performance può ridurre le fibrillazioni interne alla maggioranza.

Il m5s ha fallito il suo tentativo di svuotare il Pd ed il terzo polo fa peggio rispetto alle politiche. Il Pd, paradossalmente, va meglio pur trovandosi in una fase di rinnovamento interno. Le opposizioni sembrano più interessate a gareggiare tra di loro che a sfidare la coalizione di meloni. Come commenti tutto questo? Cosa ti aspetti nei prossimi mesi anche considerando il vicino cambio di guida nel Pd?

È andata esattamente così. La scelta di Calenda di correre da solo in Lombardia e di Conte di andare in solitaria nel Lazio aveva esattamente quell’intento: Azione era andata bene in Lombardia alle politiche, così come il M5S è mediamente molto più forte nel Lazio. L’intenzione era quella di dimostrare la loro crescita a scapito di un calo ulteriore del Pd. È successo l’esatto contrario, anche perché sia Conte che Calenda non hanno considerato che le regionali sono elezioni molto diverse dalle politiche. Alle regionali, specie con un’affluenza così bassa, si premiano i partiti che hanno più struttura, utile alla gara per le preferenze. E quanto a struttura il Pd resta molto più forte di Azione-Italia Viva e dei 5 Stelle. Dai prossimi mesi mi aspetto un Pd che provi a recuperare un’identità e un posizionamento chiaro nello spazio politico. Oggi è senza leader, senza idee forti sui temi di interesse dei cittadini, senza un messaggio politico impattante. Tutto dipenderà da chi vincerà le primarie e da quale linea intenderà adottare per la ricostituzione del partito.