Negli anni il numero di laureati che si sono spostati all’estero è aumentato moltissimo, passando da 1,6 ogni mille nel 2011 a circa 4 nel 2015. Una perdita di capitale umano che ha un impatto profondamente negativo su più fronti. Uno di questi è la diminuzione delle imprese create nelle zone di provenienza dei laureati, che provoca una minor crescita economica a livello locale.
Il nostro Paese non riesce a offrire opportunità ai laureati, non riesce a gratificare ricercatori e persone qualificate offrendo posizioni e condizioni lavorative adeguate agli sforzi e al livello di istruzione conseguiti: I lavoratori sovraistruiti rispetto alle mansioni che svolgono sono il 20% degli italiani e il 40% degli stranieri. Tutto ciò genera un forte livello di frustrazione che provoca, in genere, la ricerca di nuove destinazioni: i nostri ricercatori, ingegneri, medici, infermieri o avvocati formati dall’Italia trovano il giusto riconoscimento e valorizzazione altrove.
Dal punto di vista qualitativo rimangono diversi fattori negativi rispetto all’immigrazione nel nostro Paese: ancora troppo pochi sono i residenti che in Italia hanno conseguito una laurea, seppure un diploma in tasca possa migliorare la ricerca di un’occupazione.
Destinazioni della fuga dei cervelli
Insomma la fuga dei laureati è una vera e propria emorragia. Come sottolineato da Business Insider, sono cinque le mete più battute dagli italiani che espatriano. In primis il Regno Unito, che nel 2019 ha accolto 21mila persone, nonostante Brexit. Segue la Germania, a quota 18mila, la Francia con 14mila, la Svizzera con 10mila. Chiude la Spagna, che ha ricevuto 7mila ingressi di italiani emigrati. In cinque stati si concentra dunque il 60% del totale degli emigrati del nostro Paese. In 18 mila sono poi finiti fra Brasile, Stati Uniti, Canada e Australia.
Le ragioni della fuga dei cervelli
Le cause di questa continua fuga di cervelli sono da ricercare nella crisi di posti di lavoro, occupazioni e mansioni non adeguate ai titoli di studio, una scarsa attenzione al merito e al riconoscimento delle capacità nel mondo universitario. L’Italia è il paese con il più basso tasso di laureati tra i 30 e i 34 anni di età (23,9% rispetto alla media Ue del 38%), investe poco nell’istruzione e nella ricerca (rispettivamente il 4.1% e l’1.3 % del Pil ) e solo il 25% dei manager ha una laurea in tasca (in Europa la media è del 54%). Nel nostro Paese i ricercatori sono due volte meno che in Francia e Regno Unito, tre volte meno rispetto alla Germania, nove volte meno rispetto al Giappone, tredici volte meno guardando agli Usa.
Anna Bonapersona