Il 4 agosto 1944, la famiglia Frank fu arrestate dal Servizio di Sicurezza nazista nei Paesi Bassi. Insieme alla famiglia Van Pels e al dentista Pfeffer, i Frank vivevano nascosti ormai da più di due anni in quello che diverrà famoso in tutto il mondo come “l’alloggio segreto” o “il retrocasa”. Quasi ottant’anni dopo, ci si chiede ancora chi fu a tradire gli otto ebrei clandestini, causandone l’arresto e la deportazione.
L’arresto della famiglia Frank
La mattina di venerdì 4 agosto 1944, tra le 10 e le 10:30, un’auto tedesca si fermò davanti al numero 263 di Prinsengracht, nel cuore di Amsterdam, sede della ditta. Gies & Co. Ne scesero un tedesco in divisa e alcuni uomini olandesi in abiti civili. Uno di loro domandò qualcosa al magazziniere Van Maaren, che in quel momento stava lavorando all’interno dell’edificio; egli fece un gesto col pollice, indicando il piano superiore.
Mentre uno degli olandesi restava di guardia al magazzino, il tedesco e gli altri imboccarono le scale per il primo piano. Degli otto clandestini che quella mattina si trovavano nascosti nell’alloggio segreto all’interno dell’edificio, solo Otto Frank poté in seguito raccontare la sua versione degli avvenimenti di quel giorno.
“Di mattina, verso le 10:30, mi trovavo nella stanza del figlio della famiglia Van Pels, dove davo lezioni d’inglese al ragazzo, quando un cittadino a me sconosciuto si introdusse nella stanza. Aveva in mano una pistola e la puntò su di noi, ci fece alzare le mani e ci perquisì in cerca di armi. Quest’uomo rivelò di essere un impiegato olandese del Servizio di sicurezza tedesco di Amsterdam. In seguito ci intimò di scendere e scese dietro di noi con la pistola in pugno (…) A questo punto dovemmo tutti scendere ancora di un piano, dove io abitavo con la mia mia famiglia. Lì vidi mia moglie e le mie due figlie, anch’esse in piedi con le mani alzate (…) Allora vidi un uomo in divisa verde a me sconosciuto, anche lui con la pistola in pugno. Quest’uomo seppi che si chiamava Silberbauer. In tono brusco e imperioso chiese dove fossero i nostri soldi e gioielli, ed io glieli indicai. A questo punto prese una cartella che si trovava nella nostra stanza, in cui mia figlia Anne conservava le sue carte, tra cui il suo diario. Vuotò per terra la cartella e in seguito ci mise i nostri soldi e gioielli.” (Interrogatorio di Otto Heinrich Frank, 2 dicembre 1963).
Un uomo dell’SD, il “Servizio di Sicurezza” nazista, ridiscese al piano terra in cerca di un telefono, per chiedere che gli inviassero un veicolo adatto a trasportare gli otto clandestini e due dei loro “protettori”, come Anne chiamava gli amici che li avevano tenuti nascosti per due anni. Nell’attesa, in tedesco, Karl Silberbauer, si guardava intorno nella stanza della famiglia Frank. Notò in un angolo la vecchia cassa militare del signor Frank, su cui erano indicati il suo nome e il rango nell’esercito tedesco. Chiese spiegazioni a Frank, che confermò di aver prestato servizio come tenente nella riserva dell’esercito tedesco, durante la Prima guerra mondiale.
“Il suo atteggiamento allora cambiò di colpo. Mi sembrò quasi che volesse mettersi sull’attenti davanti a me (…) Non insisté più a farci fretta, ma disse a noi tutti e anche ai suoi subordinati di fare con calma.”
Intorno alle 13, davanti al numero 263 arrivò quello che Otto Frank descrisse come “un camion chiuso”. Gli otto clandestini – La famiglia Frank, la famiglia Van Pels e il dentista Pfeffer) furono condotti giù per le scale e caricati a bordo, insieme ai signori Kugler e Kleiman, dirigenti della ditta e loro protettori.
Gli ultimi giorni
Quei fogli sparsi in terra erano destinati a diventare la testimonianza più nota e straziante delle condizioni degli ebrei negli anni terribili della Seconda guerra mondiale. Tuttavia, Anne non scrisse – non ne ebbe modo – della deportazione, degli orrori del campo, dell’agonia. Sappiamo da fonti esterne che ella morì di tifo a Bergen Belsen intorno alla fine di marzo del 1945, poco prima che il campo venisse liberato. La sorella Margot, che condivise con lei la prigionia, morì probabilmente un paio di giorni prima di Anne, dello stesso male.
Ma i pensieri di Anne durante quei mesi a Bergen Belsen, sebbene in parte intuibili, rimangono un mistero.
Il diario di Anne, però, si porta dietro anche un altro mistero, se possibile ancor più inquietante: chi tradì la famiglia Frank? Chi fu a rivelare alla polizia tedesca che, al numero 263 di Prinsengracht, erano nascosti degli ebrei? Chi era, insomma, il responsabile dell’arresto degli otto abitanti dell’alloggio segreto?
Un sospetto fondato
Gli uomini venuti ad arrestare gli otto clandestini erano andati a colpo sicuro: si erano fermati all’indirizzo giusto e, una volta entrati nell’edificio, si erano diretti senza indugio verso la libreria che nascondeva la porta del “retrocasa”, dove si trovavano le due famiglie e il dottor Pfeffer. Uno degli uomini aveva scardinato lo scaffale, sicuro di trovarci dietro la porta del nascondiglio. Era evidente, quindi, che quegli uomini fossero a conoscenza della posizione degli otto ebrei. Qualcuno doveva aver parlato. Ma chi?
Il “caso Van Maaren”
I sospetti dei protettori si concentrarono principalmente sul magazziniere Van Maaren. Assunto nel 1943, già da diverso tempo Van Maaren era considerato inaffidabile sospettato di piccoli furti all’interno del magazzino. Ma non solo: l’uomo si era dimostrato più volte pericolosamente curioso. Le due diverse indagini che si proponevano di scovare il traditore dei Frank, nel 1947 e nel 1963, si concentrarono principalmente su di lui. In quelle occasioni, gli amici e protettori degli otto clandestini raccontarono di come Van Maaren, la sera, posizionasse alcune “trappole” in giro per gli uffici: una matita in equilibrio precario su di un tavolo che poteva facilmente essere urtato, un po’ di fecola di patate sparsa in terra per rilevare eventuali impronte. Trucchetti, insomma, che avrebbero rivelato la presenza di altre persone nell’edificio, dopo l’orario di chiusura.
In un’occasione, Van Maaren aveva ritrovato nel magazzino un portafogli dimenticato lì la sera prima dal signor Van Pels, uno degli ebrei nascosti. Il magazziniere consegnò prontamente l’oggetto al signor Kugler, ma è improbabile che prima non avesse dato un’occhiata al suo contenuto. In un’altra occasione, Van Maaren si rivolse sempre a Kugler dicendo: “Qui in ufficio, un tempo, non lavorava un certo signor Frank?” Riferì di aver auto quell’informazione da uno degli impiegati della ditta a fianco.
Ancora, un’altra volta fu sorpreso a tentare di grattar via la vernice blu con cui erano stati oscurati i vetri di alcune finestre della casa sul retro. Quando Kugler chi domandò che cosa stesse facendo, rispose semplicemente “Ehi, lì non ci sono mai stato!” Risulta insomma pressoché ovvio che Van Maaren sapesse, o almeno sospettasse con forza, che nell’edificio fossero nascosti degli ebrei, e forse immaginava anche di chi si trattasse.
Gli ebrei nascosti erano al corrente del comportamento di Van Maaren, e questo li rendeva ancor più prudenti. Il 4 agosto, immediatamente dopo l’arresto, Silberbauer tolse le chiavi degli uffici all’impiegata Miep Gies, considerata complice dei clandestini, e le consegnò proprio a Van Maaren, che ebbe così l’incarico temporaneo di amministratore della ditta. In quell’occasione, Van Maaren si vantò con Miep Gies di avere buone conoscenze all’SD e le disse che non doveva preoccuparsi di essere arrestata, poiché lui avrebbe sfruttato quelle conoscenze a suo favore.
In seguito, Van Maaren approfittò del proprio incarico per atteggiarsi a capo, fino al ritorno del signor Kleiman, che era stato arrestato insieme agli otto ebrei. Il magazziniere venne licenziato solo poco dopo la liberazione, dopo essere stato sorpreso a rubare dal magazzino.
Durante il proprio interrogatorio, Van Maaren negò di aver mai vantato fantomatiche conoscenze all’SD; si proclamò anzi anti-tedesco e raccontò inoltre di aver sì avuto il sentore che al numero 263 di Prinsengracht succedesse qualcosa di strano, ma di non aver pensato alla possibilità che vi si nascondessero degli ebrei fino al giorno stesso dell’arresto. Morì ad Amsterdam nel 1971. Non fu mai possibile accusarlo ufficialmente di aver tradito la famiglia Frank e i loro amici.
Altri sospettati
Van Maaren non era l’unico ad avere dei sospetti. Il magazziniere Hartog aveva notato, per esempio, che al numero 263 di Prinsengracht venivano spesso consegnate grandi quantità di cibo, e si domandava a che cosa servisse. Da dichiarazioni rilasciate dopo la Liberazione risulta che Hartog aveva confidato alla moglie di sospettare che nell’edificio fossero nascosti degli ebrei. Quest’ultima riferì poi il pettegolezzo ad una sua amica, a sua volta moglie di un tale Genot, che lavorava nella ditta a fianco. Ella rispose di “stare molto attenta a dire certe cose”.
Ma anche questa pista si risolse in un nulla di fatto, per mancanza di prove e perché nessuno riteneva né Hartog né Genot capaci di un atto simile.
In tempi molto più recenti, nel 2016, l’ex agente dell’FBI Vince Pankoke, insieme a un gruppo di investigatori, è tornato ad indagare sul caso. Le nuove indagini hanno portato ad identificare il traditore nella persona di Arnold Van den Bergh, un notaio ebreo. Egli avrebbe accettato di collaborare coi nazisti in cambio di una sorta di “immunità” per sé e per la propria famiglia. Il suo nome era già stato fatto nel 1963, nel corso della seconda indagine sul tradimento; ma all’epoca la polizia si era concentrata principalmente su Van Maaren, trascurando altre piste. Le indagini di Vince Pankoke sono descritte nel libro “Chi ha tradito Anne Frank”, di Rosemary Sullivan. Tuttavia, gli anni trascorsi da quel 4 agosto 1944 sono ormai troppi perché si possa stabilire con certezza chi sia stato il responsabile della soffiata che portò all’arresto della famiglia Frank e dei loro amici. La verità rimane tuttora un mistero, che con ogni probabilità non verrà mai svelato.
Chiara Genovese