Alcuni la chiamano nebbia mentale, altri semplicemente post-Covid, ora uno studio italiano dimostra che il coronavirus può lasciare il segno sul cervello anche a distanza di un anno dalla malattia. La ricerca è stata condotta dall’Università degli Studi di Milano in collaborazione con il Centro Aldo Ravelli della Statale, l’Asst Santi Paolo e Carlo e l’Irccs Auxologico su 7 pazienti che erano stati ricoverati per Covid19 e a distanza di un anno lamentavano ancora disturbi di tipo cognitivo.
Lo studio dell’Università di Milano
Specifiche aree del cervello di questi 7 volontari sono state studiate con esami di tipo diagnostico non invasivo: tre pazienti avevano problemi nella sfera della memoria (afferente alle aeree temporali), dell’attenzione ed equilibrio (che dipendono dal tronco encefalico) e addirittura sul comportamento (collegato alle aree prefrontali). Uno di questi volontari, con problemi più estesi rispetto agli altri, è stato sottoposto a un esame speciale per cercare la proteina amiloide. E’ emerso che c’era un importante accumulo, soprattutto nelle aree che controllano il comportamento.
Cos’è la proteina amiloide?
Un dato significativo, spiegano i ricercatori: “L’amiloide è una proteina che quando si accumula nei neuroni ne determina l’invecchiamento precoce e la degenerazione e che è implicata nella malattia di Alzheimer”. Secondo i ricercatori questo potrebbe spiegare perché chi ha sviluppato la malattia grave e poi è guarito continua a soffrire di disturbi come lo stress post traumatico, deficit di memoria e contrazione: “Nel paziente esaminato la Pet ha rilevato un abnorme accumulo di amiloide nel cervello e particolarmente nei lobi frontali e nella corteccia cingolata, legate a funzioni cognitive complesse e alle emozioni”. Non è però ancora chiaro se l’aumento della proteina di amiloide sia causata dall’infezione o se si tratti invece di un effetto.