Si ripeteva che non doveva addormentarsi, non doveva mollare. Solo così poteva sperare di salvarsi e così è stato. Il racconto di Carluccio Sartori, lo scialpinista di 54 anni di Villanova Marchesana (Rovigo), rimasto sepolto per oltre 20 ore sotto una slavina caduta sull’altopiano di Fanes, sopra San Cassiano. L’uomo è lucidissimo. Segno che il carattere ha tenuto e lo spirito lo ha aiutato a sopravvivere in situazioni estreme. “Sapevo che non dovevo mollare, sapevo che non dovevo assolutamente addormentarmi, altrimenti sarebbe stata la fine”. Lo racconta, una volta riprese le forze, all’ANSA direttamente dal letto di ospedale. Il viso pieno di graffi, le dita fasciate ma la mente non ha perso neanche un attimo di quelle ore trascorse al gelo, sommerso. “Non sono credente – confessa – ma quella notte ho pregato mia madre”. Tutto succede mercoledì 26 gennaio 2023. Sartori è uno sportivo, lo sci alpino non è la sua unica passione. Quella mattina l’imprenditore veneto stava salendo verso il Setsass, quando improvvisamente viene travolto dalla valanga. “Mentre la slavina mi trascinava via – racconta – ho indurito i muscoli perché temevo che le masse nevose mi potessero spezzare un arto”. Lo spirito di sopravvivenza ha prevalso e lo ha spinto a compiere movimenti istintivi, racconta. “Quando poi la neve si stava per fermare, ho iniziato a nuotare, per restare a galla, ma ero molto limitato nei movimenti e una spalla mi faceva male e lo zaino mi ostacolava”.
Valanga, scialpinista sopravvissuto: “Non ho mai smesso di muovermi”
Ma la neve continuava a scendere e lui doveva trovare sempre la via per poter ricevere ossigeno, a scavarsi una via per far arrivare l’aria necessaria per sopravvivere in attesa di capire come fare per chiamare aiuto. “Sono sempre rimasto cosciente e lucido – conferma Sartori – Ho chiamato aiuto, ma nessuna risposta”. Il cellulare o gli altri dispositivi tecnologici non rispondevano agli stimoli. “Purtroppo anche Siri non rispondeva”. Fino a che c’era la luce del giorno la testa e lo spirito tenevano bene, poi con il calare del buio e della temperatura ha cominciato a temere il peggio. “Ho cominciato ad avere paura di non farcela. Il mio unico pensiero era di restare vivo”. Per la sua esperienza e le sue conoscenze sapeva di non doversi addormentare. “Per questo motivo per tutta la notte ho fatto una sorta di micro-ginnastica, muovendo sistematicamente un arto dopo l’altro, come riuscivo sotto la neve. Il cuore da tante ore andava a 150 battiti, forse anche di più, e mi chiedevo quanto potesse reggere”. Muovendosi in quel modo il corpo riusciva a mantenere il calore necessario per non andare in ipotermia e ad un certo punto anche la neve che aveva addosso si è sciolta lasciandogli più spazio attorno. Poi sono arrivate le luci dell’alba e la speranza è tornata ad aiutare psicologicamente Sartori. “Ancora un po’ e arrivano mi ripetevo. E poi sono arrivati. Non dimenticherò mai il rumore dell’elicottero. Quando ho visto i soccorritori mi sono rilassato. Andrò a trovare i ragazzi. Confesso di non ricordare le loro facce. Mi dicono che ho risposto, so solo che mi sono svegliato in ospedale con un grande calore addosso”. La domanda sorge spontanea, tornerà a scalare montagne? “A casa mi uccidono se ora dicessi che farò ancora scialpinismo, quindi per ora dico di no, so di essere stato molto, ma molto fortunato. Per tutta la vita quando vedrò le stelle e il Grande Carro penserò a quella notte”.