Giornata delicatissima per Antony Blinken, segretario di Stato Usa, il quale ha iniziato il viaggio istituzionale in Medio Oriente, tra Egitto e Israele. Si tratta della seconda trasferta americana recente dopo quella compiuta dal presidente Joe Biden la scorsa estate. Obiettivo della campagna è invitare le parti in tavola ad abbassare i toni, specialmente al nuovo governo Netanyahu dopo le ultime violenze tra israeliani e palestinesi.

“È responsabilità di tutti prendere provvedimenti per calmare le tensioni piuttosto che infiammarle”, ha dichiarato Blinken.

Blinken in Medio Oriente al culmine delle tensioni in Israele

Come lui stesso afferma in uno dei diversi punti stampa, Blinken è consapevole del “momento cruciale” in cui cade il viaggio in Medio Oriente, soprattutto nell’incontro con il primo ministro di Israele. Solo nell’ultima settimana ci sono stati parecchi scontri con i palestinesi, il culmine è stato raggiunto con la duplice sparatoria tra Jenin (in Cisgiordania, teatro della morte della giornalista Abu Akleh lo scorso aprile), dove sono state uccise 10 persone, e Gerusalemme (qui le vittime sono state 7).

Blinken ha condannato il gesto delle milizie palestinesi, che hanno trucidato sette persone all’uscita di una sinagoga, luogo di culto simbolo degli ebrei, definendolo “crimine odioso”. Al contempo ha dichiarato che “qualsiasi atto di terrorismo che pone fine a vite umane non può essere tollerato, a prescindere dal credo religioso”. In sintesi, un secco “no” alla vendetta come giustificazione dei propri gesti.

Ma su quali basi istituire un percorso di de-escalation di violenza? Sui numeri impressionanti di vite spezzate, come punto di partenza. E poi sul ruolo degli Stati Uniti, da sempre al fianco di Israele ma al contempo fervidi sostenitori del modello “una terra, due Stati”. C’è invece totale sintonia sul fatto che l’Iran rappresenti una minaccia nucleare concreta.

Nell’incontro con il presidente egiziano al-Sisi e con il ministro degli Esteri Sameh Shoukri Blinken ha cercato del sostegno in una zona dove gli Stati Uniti non possono avere geograficamente il controllo. Stabilità che però non riguarda solamente la striscia di Gaza bensì anche l’area dell’Africa nordorientale, segnata da conflitti strenui come quelli in Libia e in Etiopia.

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