Piove, fa freddo e tira vento. Sono le 6.30 del mattino e in via della Fortezza a Firenze, vicino alla stazione ferroviaria, c’è una fila lunga almeno cento metri. Passo di lì per prendere il treno e noto quel serpente umano che sta aspettando il proprio turno davanti agli uffici della questura per ottenere un permesso di soggiorno o un passaporto. Non so ma ha poca importanza. Nel mondo cosiddetto digitale, nell’era del tutto e subito a portata di mano, ci sono persone costrette a stare sotto la pioggia per ottenere un documento. 

Nel mondo digitale ci siamo dimenticati di vecchi diritti

Ho scoperto qualche giorno fa che succede un po’ ovunque, in molte città italiane, tanto da far scrivere a Flavia Perina sul quotidiano La Stampa, un piccato articolo in cui scrive che “presi come eravamo a litigare sui nuovi diritti ci siamo dimenticati dei vecchi: ad esempio, il diritto elementare di ottenere un documento di identità che ci consenta di spostarsi e viaggiare”. Tornano in mente le code del tempo di guerra per accaparrarsi patate e zucchero, ricorda Perina, ma “qui non ci sono bombe o devastazioni mondiali a giustificare la penuria di un timbro, di un modulo, di un’autorizzazione al rilascio”. Manca il personale? Probabile. Mancano i pc? Possibile. Resta la buona volontà degli addetti ma non basta. Resta quell’immagine penosa di una fila di persone sotto la pioggia in attesa dell’agognato documento. Se poi scopri che sono immigrati che aspettano per prendere il permesso di soggiorno aumenta il dispiacere se pensi che sei nella città del sindaco quasi santo Giorgio La Pira e dell’apostolo laico della fratellanza universale Lando Conti. 

Stefano Bisi