Rooming in cos’è linee guida. Nelle ultime ore sul web e non solo si sta parlando tanto di rooming in. Per alcuni potrebbe essere una parola sconosciuta, ma per le mamme e future mamme, nonché papà e futuri papà, si tratta di una pratica già nota. Stiamo parlando di una forma di assistenza post parto che i reparti di maternità di alcuni ospedali offrono alle neo-mamme, permettendo loro di avere con sé il neonato ventiquattro ore su ventiquattro.
Ovviamente il rooming in non è obbligatorio nelle strutture che la propongono, ma semplicemente consigliato contribuisce al benessere di mamma e figlio, inoltre favorisce un avvio sereno all’allattamento. Anche il Ministero della Salute consiglia questa pratica: “Il contatto tra madre e figlio, che si realizza sia a livello epidermico che visivo immediatamente dopo la nascita, dovrebbe continuare offrendo alla madre la possibilità di tenere sempre il bambino con sé. La pratica del rooming-in dovrebbe quindi sostituire quella di tenere madre e figlio in camere separate e a contatto soltanto durante visite programmate“.
In realtà il rooming in non è disponibile in tutte le strutture, ma una di queste è l’ospedale Pertini di Roma in cui nella giornata di lunedì 23 gennaio è accaduta una tragedia: una donna di 30 anni di origini italiane si è addormentata mentre allattava, finendo per schiacciare il piccolo con il peso del suo corpo.
Rooming in cos’è linee guida: pro e contro
Gli ospedali che mettono a disposizione il rooming in consigliano alle mamme questa pratica, in quanto – oltre ai benefici già citati in precedenza – permette ai bambini di essere meno esposti ai batteri portati dal personale ospedaliero al nido.
Ostetriche e personale sanitario però tendono a specificare che in qualsiasi momento possono prendere il neonato e portarlo alla nursey. Soprattutto nel caso in cui la donna si senta stanca dopo il parto e abbia voglia di dormire qualche ora da sola. Forse è quello che è accaduto alla donna protagonista del terribile incidente accaduto al Pertini.
In questo caso la ragazza avrebbe dichiarato però di portare il figlio al nido per riposare, senza esito positivo. Dopo 17 ore di travaglio e al terzo giorno consecutivo insieme al piccolo si sarebbe addormentata “sfinita“, come l’ha definita il compagno, padre del piccolo. Ovviamente dall’ospedale fanno sapere che nessuno ha costretto la giovane mamma a tenere il neonato con sé, come si legge in una nota diffusa dalla Direzione strategica della Asl Roma 2: “Il rooming-in viene attuato anche nell’ospedale Pertini, dove tutte le puerpere vengono informate dei rischi connessi alla gestione del bambino, venendo peraltro edotte, anche con la sottoscrizione di un modulo, sulle azioni da effettuare per evitare il verificarsi di eventi avversi“.
Co-sleeping: come funziona
Oltre alla pratica del rooming in si sta parlando tanto anche di quella del co-sleeping. Diversamente dal rooming in che viene consigliato, il co-sleeping invece viene sconsigliato. In questo secondo caso si tratta della pratica di dormire insieme al neonato e che risulta essere una delle prime cause di morte dei piccoli.
I pediatri consigliano quindi di dormire sì nella stessa stanza, ma in letti separati, in maniera tale da evitare il soffocamento a causa delle grandi coperte e lo schiacciamento involontario da parte del genitore. Si legge sul sito del Ministero della Salute: “La condivisione del letto dei genitori (bed sharing) non è la scelta più sicura (può portare ad un aumento del rischio di SIDS nei primi mesi), ed è particolarmente pericolosa se viene praticata su un divano, se i genitori sono fumatori, hanno fatto uso di alcol, farmaci, sostanze psicoattive o per altre ragioni non sono in buone condizioni di vigilanza (es. stanchezza), nelle prime settimane di vita del bambino o se questo è nato pretermine o piccolo per l’età gestazionale“.